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Scrittore eclettico, fecondissimo, capace di una pratica letteraria inesausta che investe tutti i generi, Pietro Aretino è il simbolo di tanti caratteri del nostro Cinquecento, oscillante fra indipendenza e cortigianeria, fra ossequio alla norma e trasgressione. Personaggio comunque di grande rilievo nel panorama culturale italiano dell’età del Rinascimento, vede ora realizzata, in coincidenza con il cinquecentenario della nascita, l’Edizione nazionale della sua vastissima opera, prevista in 10 volumi per 24 tomi complessivi. Il primo tomo delle Poesie varie – curato da Giovanni Aquilecchia e Angelo Romano – ubbidisce al criterio di riunire tutte le opere in versi che l’Autore procurò di far uscire a stampa in veste autonoma, con l’eccezione delle liriche di argomento cavalleresco, che costituiranno il II volume, e delle pasquinate, destinate al VI, mentre nel secondo tomo di questo volume confluirà il rimanente materiale in versi, sia esso inserito in opere prosastiche a stampa o tramandato manoscritto. Già in queste Poesie varie risulta evidente l’ampiezza degli stili poetici padroneggiati dall’Aretino, il quale coscientemente ne perseguiva una dinamica e vivacissima «comparazione». Sono infatti qui riunite delicate liriche d’amore, stanze e strambotti rusticani, capitoli e ternali encomiastici, sonetti erotici, canzoni d’ispirazione mistico-religiosa o patriottica, ecc., in un continuo intreccio di toni e di lessici i più diversi e contrastanti. Per questo, il volume risulta un affascinante repertorio di sperimentazioni letterarie, nonché una ricca testimonianza della vitalità intellettuale e spirituale dell’Aretino. I testi, in edizione critica, sono accompagnati da un’ampia Introduzione, da un essenziale apparato di varianti, da esaurienti Note ai testi per i singoli componimenti, da un Glossario e da un Indice dei nomi ragionato.
recensione di Davico Bonino, G., L'Indice 1993, n. 1
Con questo primo tomo, di quasi quattrocento pagine, prende l'avvio l'Edizione Nazionale delle Opere di Pietro Aretino, per la Salerno editrice instancabilmente animata dal filologo Enrico Malato. Il quale presiede un comitato scientifico, che sarebbe di dieci membri se due studiosi prematuramente scomparsi, Innamorati e Petrocchi, non vi sedessero, per così dire, 'in memoriam'. Ne fan parte, comunque, valentissimi specialisti del Nostro, come Aquilecchia, Borsellino, Larivaille, Padoan, col rinforzo dei più giovani Bruscagli e Ferroni. Tutto, insomma, lascia sperare che i ventiquattro tomi, in cui s'articola la coraggiosa e meritoria impresa, saranno all'altezza dell'autore cui sono riservati, tra i massimi del nostro Cinquecento.
Le attese maggiori sono rivolte, s'intende, alle "Sei giornate" (un tomo) alle "Lettere" (sette tomi), al "Teatro" (tre tomi): cioè all'Aretino dialogista, epistolografo e drammaturgo, che, salvo future sorprese, è l'Aretino più vero e più grande. Questo primo tomo di un primo volume, riservato ad ospitare in due distinte sillogi, la poesia lirica (alla poesia cavalleresca è riservato il secondo volume, in un solo tomo), va letto con la dovuta attenzione e col dovuto rispetto, ma non costituisce, dal punto di vista espressivo, quella che s'usa dire "una partenza alla grande". Il rispetto va, soprattutto, al lavoro dei due curatori, che sono Giovanni Aquilecchia e Angelo Romano. Non conosco il Romano, che è segretario del Comitato scientifico, di cui ho detto: per l'Aquilecchia nutriamo tutti la più grande stima: se non ci fossero, a testimoniare la sua valentìa di storico e filologo, le edizioni critiche e gli studi bruniani e aretiniani, basterebbe la sua nomina, nel 1970, a successore di Carlo Dionisotti sulla cattedra di letteratura italiana presso il Bedford College di Londra, a dirla lunga sui suoi "quarti di nobiltà" di studioso.
Orbene Aquilecchia e Romano, come a dire l'aretinista più anziano e il più giovane, si sono divisi (come succede in imprese a quattro mani) il lavoro: e - leggo nella nota in calce al controindice - Aquilecchia s'è presa, oltre all'introduzione, la cura dei testi e delle note agli "Strambotti a la Villanesca", alle "Stanze in lode di madonna Angela Serena" e ai "Sonetti sopra i 'XVI Modi'", lasciando al collega le altre opere, oltre al glossario e all'indice dei nomi.
Le altre opere (lo preciso per dovere d'informazione) sono l'"Opera nova", cioè la raccolta di settantotto componimenti impressa dallo Zoppino a Venezia quando l'Aretino aveva vent'anni, nel 1512; e tutta la produzione "ufficiale", cioè encomiastica e ottativa, indirizzata ad altissimi destinatari: papa Clemente VII (1523), il re Francesco I e l'imperatore Carlo V (1524) il datario pontificio Matteo Maria Giberti (1525), ancora Carlo V (1539 e 1543), Guidubaldo II della Rovere duca d'Urbino (1547), papa Giulio III e Caterina de' Medici, regina di Francia (1551). A parte, sta una "Canzona alla Vergine Madre" (di incerta datazione, ma non dopo il 1538).
Ora, con tutta la debita ammirazione per l'acribia dimostrata a iosa dal Romano nella determinazione del testo definitivo e per la messe di precisazioni, erudite e non, che il suo lavoro ha comportato e che vengono doviziosamente offerte alla nota ingordigia degli specialisti, non c'è un verso n‚ della giovanile raccolta n‚ dei successivi componimenti che valga la pena d'esser notato, trascritto e mandato a memoria. L'Aretino di scriver serio o alto, proprio, non era capace (sarebbe stato come chiedere a Carlo Emilio Gadda di scriver qualcuna delle disincarnate e diafane liriche ermetiche dei suo sodali fiorentini delle Giubbe Rosse): anzi, quando più ci si sforzava, tanto più approdava a risultati d'un riprovevole 'Kitsch'.
Invece, nella parte che Aquilecchia, pienamente a ragione ("ubi maior", con quel che segue), si riserva, ci sono due gioielli di assoluto e certificabile splendore. Non mi riferisco tanto alle "Stanze in lode di madonna Angela Serena", che nella loro compassata "medietà" stilistica mi sembrano significative semmai di un affetto sincero, in un uomo programmaticamente insincero, per una mantenuta d'altissimo bordo, quella Angela de' Tornibeni o Tornimbeni, che doveva morire nel 1540, con profondo dolore del Nostro. Penso, invece, agli "Strambotti alla villanesca" che dopo questa "restituzione" gli studiosi di poesia rusticale (dal De Robertis al Ghinassi, dal Di Benedetto alla Poggi Salani, all'Orvieto) non potranno più, a nessun titolo, ignorare. Dedicate alla contadinella Viola, queste 147 ottave, edite dal forlivese Marcolini nel 1544, sono un vero "controromanzo" del desiderio in versi: controromanzo, dico perché con la strategia costruttiva utilizzata anche nelle "Giornate", Aretino si guarda bene dal raccontare per filo e per segno, magari con tanto di crescendo e con il suo bravo 'climax', la storia, sempre elusa, della sua febbre di possesso della Bella Ritrosa. No, tenendoci sempre sulla corda della curiosità, di quella storia ci restituisce frammenti, schegge, flashback, in un calcolatissimo disordine. Ma quei tasselli di un puzzle a bella posta scombinato sono, spesso e volentieri, perfetti. Trovato un contenuto (per lo più, un'immagine d'avvio), la forma vi si adatta come un guanto. Viola tiene "la capocchia in giù guatta", e lui la riconosce "a l'odore", perché il suo fiato "sa d'ambra gatta" (ambracane, ambra grigia). Viola alza la gonnella "e in giù rovescia tutto lo scoffone" (la sopracalza), e lui brama "d'esser quella pulcia, quella / che ti manuca senza descrezione". La neve vien giù "a la sfilata" e Viola, zitta, non lo invita: "ché verria come vengon le saette / a scaldare il tuo asgio in le lenzola". Lei gli sfugge talmente che lui, freudianamente, la sogna come una "tenga", una tinca, ma per riporla "in una conca piena d'acqua fresca", tenerla sempre con sé come "una gentilezza", e giocare spesso con lei ("a tutte l'ore dandoti de l'esca / con teco in gi£ e in su si sguazzaria...").
Si vorrebbe citar di più, ma lo spazio è rio. E vogliam dire dell'altro gioiello, che sono i diciotto "Sonetti (tutti caudati, salvo l'ultimo) sopra i 'XVI Modi'", editi col facsimile "delle pagine originali dell'unico esemplare oggi noto della stampa cinquecentesca (1527?) conservata a Ginevra" cioè con la riproduzione delle "scandalose" incisioni del bolognese Marcantonio Raimondi. Riuscire a far poesia della copula, e non per metafora, ma nella letteralità dell'atto con tutto ciò che di "tecnico" (se Platone mi passa il termine) l'atto, quanto più è esaltato ed esaltante, comporta, è asperrima impresa. L'Aretino non solo ci riesce, ma mette in qualche modo il suo "copyright" (o se preferite una metafora alpina, la sua bandierina) sulla stessa (legger Giorgio Baffo, dopo di lui, diventa un divertimento di maniera). Qui del coito c'è il disperato vitalismo, c'è l'egotistica aggressività, c'è, se volete, anche l'angoscia del transeunte e dell'irripetibile: ma, per fortuna non c'è ombra di quell'accidiosa malinconia, che ispirò la non memorabile cretinata del "post coitum omne animai triste". Qui tutto è scabro, netto e, a suo modo, grandiosamente definitivo: a parte certi incipit ormai canonici ("Fottiamoci, anima mia, fottiamoci presto..."; "Questo cazzo voglio io, non un tesoro..."), è la perentorietà del rituale che ti abbacina: "Adunque, compirete?" / "Adesso, adesso faccio, signor mio" / "Adesso ho Atto", "E io", "Ahimè ", "O dio".
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