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«Accadde in Palestina, nella Terra Santa»: un giorno del 194..., al mercato di Tel-Aviv, un uomo si mette in vendita, «vestiario compreso». È Piotrus: del suo passato sapremo poco, qualche barbaglio di ricordi, il suo futuro avrà un punto fisso, il gabinetto dove la sua acquirente – la sordida signora Cin – gli impone di vivere, perché ne impedisca l’accesso a dei suoi inquilini. Ma questo è solo il primo dei ruoli di Piotrus: schiavo, animale, minorato, schizofrenico, egli passa per numerose varianti della degradazione, senza opporre resistenza. Per lui la degradazione è un’ascesi – e anche l’unica possibilità adeguata alla sua natura di spettro, di essere che non conta più nulla nella società, estrema metamorfosi dell’uomo del sottosuolo dostoevskiano. Piotrus parla da un luogo dove la consistenza della persona e del reale si è già sfasciata, dove si trovano solo sabbie mobili senza fine e la morte minaccia di non esserne il fondo. In quanto relitto, Piotrus ha la libertà di guardare senza essere visto, è costretto a essere sempre voyeur : la città gli appare in un clima di rapida degenerazione della materia, oppressa e inquinata, una immensa cancrena; gli abitanti in preda a un movimento illusorio e avido, che accresce sempre più l’inerzia del tutto. L’unica presenza costante è la sofferenza, Piotrus ci vive dentro, come un fool elisabettiano privato del suo palcoscenico e ridotto a un monologo fra quattro luride pareti. Uscire per le strade, viaggiare – come farà –, aggiungere qualche fatto ai fatti precedenti della sua vita è per lui un cambiamento apparente. Alla fine, Piotrus torna nel suo gabinetto – e così si chiude questo resoconto sobrio, di avvenimenti mostruosi, l’itinerario di una discesa nel buio.
Piotrus è apparso per la prima volta nel 1960.
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