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Il danese Peter Adolphsen, classe 1972, esce per la prima volta in Italia con un curioso racconto lungo intitolato La pietra che parla. I suoi compatrioti, entusiasti, hanno scomodato addirittura Kafka e Borges per i paragoni di rito. Nè sono mancati, tra i recensori, quanti abbiano individuato, in poche decine di pagine, una mirabile metafora della recente storia europea. Lo spunto di partenza è senz'altro originale: alla ricerca di tracce che testimonino l'esistenza dei Vril-ya, razza di semidei che secondo alcuni esoteristi di fine Ottocento abiterebbe nelle viscere della Terra, nel 1907 un bancario bavarese si avventura in un'improbabile spedizione speleologica, da cui riemergerà con un frammento di roccia che emette strane vibrazioni. Nel corso dei decenni la pietra cambierà proprietario varie volte, per i motivi e le occasioni più disparate, ed ogni passaggio di mano segnerà l'inizio di una travagliata microstoria personale a cui farà da sfondo il sempre mutevole scenario storico-politico europeo, tra conflitti, rivoluzioni artistiche, cambiamenti sociali. Borges c'entra poco: la costruzione della trama di questo colto divertissement fa piuttosto pensare agli oulipiens francesi, mentre è assolutamente nordica la freddezza, tradita ogni tanto dall'espediente del discorso indiretto libero, con cui la voce narrante registra, più che raccontare, le vicissitudini dei vari possessori della pietra. É come se l'autore si identificasse in questa silenziosa testimone, nella sua gelida indifferenza al proprio e all'altrui destino: più che una metafora dell'Europa del ventesimo secolo, un'amara presa di coscienza della finitudine e della sostanziale fungibilità di ogni vita umana.
Valerio Rosa
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