"Noi mettiamo tante volte nelle cose (e anche nelle persone) la nostra anima: ma in questi tempi bisogna saperla ritirare quando è necessario e portare con noi il nostro mondo". Le pagine più alte di questo epistolario filosofico, ora pubblicato con splendido apparato di note, sono dedicate alla libertà di coscienza e di pensiero, in tempi difficili che coincidono con l'affermazione inarrestabile della dittatura fascista fino alla guerra. Uno dei dodici professori universitari italiani che nel 1931 rifiutarono il giuramento di fedeltà al regime (per "impossibilità morale") ritirandosi dall'insegnamento, Martinetti aveva già subito nel 1926 delazioni e denunce della cultura cattolica orchestrate da Gemelli, fino all'ufficiale condanna dei suoi libri da parte del Santo Ufficio nel 1937. La persecuzione da parte del potere politico e insieme di quello religioso, in nome di un cattolicesimo che si proponeva "quale fondamento e coronamento della nuova Italia fascista", corrisponde all'accentuarsi di profondi motivi pessimistici nel pensiero martinettiano; quello del mondo come "creazione diabolica", regno del male e della sofferenza innocente (anche animale); quello del "disconoscimento etico" del cristianesimo ufficiale, corresponsabile della "degenerazione" che "trasforma un popolo in una massa abietta di servi" e lo consegna alla "barbarie". Partito dalla filosofia orientale, poi da Kant e Schopenhauer, Martinetti approda così alla suprema lezione di Spinoza e insieme di Seneca: "Far fronte al dolore col ricercarlo nelle sue cause e con l'universalizzarlo". Esilio "interno", filosofica "indifferenza" e "silenzio" sono le conseguenze di questa ricerca, ma anche la necessità della lotta contro il male in nome di un'autentica "fede religiosa", intransigente ispiratrice di "doveri assoluti". Rinaldo Rinaldi
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