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Anno edizione: 2015
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Dopo la delusione di "Oggetti quasi" J.Saramago si conferma in questo libro un autore di spicco riportando alla memoria la propria infanzia non certo felice ma descritta in modo mirabile come solo lui riesce a fare.
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Uno scrittore non nasce quando viene alla luce, ma quando pronuncia, comprende e si appropria della sua lingua, delle parole su cui costruirà vita e professione. È la lingua il motore dell'esistenza di un narratore, è attorno alle parole che si costruiscono i romanzi, così come si esprimono le riflessioni personali, le gioie e le delusioni di ogni giorno. In questo libro sui ricordi dell'infanzia e dell'adolescenza di José Saramago, la vita ha inizio nelle aule di scuola, e ogni memoria è legata a un evento linguistico, alla storpiatura di un termine (con qualche sospetto di dislessia), alla conquista di un significato, all'epifania di un senso. La lingua è per l'autore espressione della differenza di classe nella società di primo Novecento, lo dimostra l'intolleranza da parte dei più umili nei confronti di vocaboli considerati eruditi (si preferisce "pitale" a "orinale", "forse perché il plebeismo superava i limiti della tolleranza lessicale delle famiglie"), ma anche l'episodio del medico che preferì "rotula" a "ginocchio", parola "troppo comune, indegna della sua persona". Sono dunque i ricordi dello stupore provato per le novità linguistiche, per la concretezza lessicale della parlata dei più poveri, per il fascino esercitato dal registro colto dei più abbienti.
Ricordi che raccontano la scoperta della lettura, un evento che in José Saramago precedette la comprensione dei significati stessi, quando riconoscere le sillabe che formavano le parole "era come trovare lungo la strada un cippo lì a dirmi che andavo bene, che ero nella direzione giusta". L'esempio più significativo è allora l'episodio della confusione tra le parole "rallentatore" e "redentore", quando, durante un gioco con i compagni, fingendo di cadere al rallentatore, l'autore ricorda di avere accompagnato l'azione con la didascalia "è a redentore", forse nella speranza di suscitare qualche stupore per tanta competenza linguistica. In fondo, come scrisse Luigi Meneghello in Libera nos a malo, "la parola nuova era l'evento stesso" (Libera nos a malo, Mondadori, 1986).
Ma sono parole anche i nomi che, nient'affatto casuali, ci accompagnano per tutta la vita e che per l'autore sono fonte di riflessioni e di scoperte, come il fatto singolare di avere ribattezzato il proprio padre, dato che un ubriaco ufficiale dell'anagrafe aveva registrato il neonato José con il soprannome di famiglia, Saramago appunto, obbligando il genitore ad aggiungere al proprio cognome quello che solo suo figlio possedeva.
È dunque un libro semplice, piacevole, dalla scrittura piana e priva delle invenzioni saramaghiane a cui siamo abituati. Sono ricordi normali, piccoli, di un bambino senza grandi risorse che guarda il mondo incuriosito da ogni più piccola realtà e, nel contempo, sono le parole di un adulto che ripesca nel proprio passato l'origine dell'ispirazione di tutte le proprie opere, tratta da eventi del quotidiano di cui siamo tutti involontari protagonisti. Qui si comprende quanto possa essere straordinaria la normalità.
Daniela Di Pasquale
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