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La peste in fondo al pozzo. L'anatomia astrusa di David Hume - Emilio Mazza - copertina
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La peste in fondo al pozzo. L'anatomia astrusa di David Hume
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La peste in fondo al pozzo. L'anatomia astrusa di David Hume - Emilio Mazza - copertina
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Descrizione


La verità, sempre che sia alla nostra portata, è certamente astrusa. La filosofia non può che somigliarle. Eppure, osserva Hume, siamo inclini a rifiutare qualunque cosa pretenda troppa attenzione per essere compresa. Un ragionamento astruso, se corretto, dovrebbe conservare la sua forza. Eppure, la convinzione che produce diminuisce in proporzione agli sforzi che facciamo per capirlo. Zittisce, ma non convince. Non appena usciamo dallo studio, le sue conseguenze svaniscono come fantasmi della notte. La verità di un’argomentazione non dovrebbe dipendere dalla sua forma astrusa né dalle sue conseguenze pericolose. Eppure, preferiamo verità semplici ed errori utili. «Perché – si chiede Hume, come farà Nietzsche – cavare fuori la peste dal pozzo in cui è sepolta?». Che cosa è disposto a fare un filosofo per promuovere la sua filosofia? A cambiare le immagini che la raccontano, per esempio, passando dall’«anatomia» alla «delineazione» della natura umana. A escludere il suo scritto principale dalle opere complete, per celebrarlo nel testo che fa da introduzione. Il Treatise of Human Nature, nato morto «più per la maniera di trattare che per la materia trattata», resta fino all’ultimo nei pensieri di Hume. La peste sale e scende nel pozzo, secondo un movimento che ricorda quello di filosofia scettica e vita: è l’insegna dello scetticismo di Hume.

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Dettagli

2012
5 novembre 2012
Libro universitario
378 p.
9788857514949

Voce della critica

  Un giovane filosofo scrive un trattato. Gli sembra di non aver lesinato nessuno sforzo per renderlo bene accetto al pubblico e ai suoi colleghi: ha spaziato dalla metafisica alla morale; ha accuratamente esposto tutte le prove che è riuscito a escogitare per le proprie opinioni, a volte così singolari da sembrare paradossali; ha cercato di smussare le asperità concettuali e ciò che poteva ferire il comune sentire religioso, senza tuttavia rinunciare a esporre le sue tesi; lo ha sottoposto non solo al parere degli amici, ma anche a quello di alcuni autorevoli colleghi, sperando di accattivarsene il favore. Nonostante ciò, quanto meno per lui, l'opera non ha successo, neppure di scandalo. Circa quarant'anni dopo, il filosofo non è più giovane e sospetta di essere alla fine di una vita in cui ha raggiunto mete importanti, arricchendosi con le sue pubblicazioni, sostituendo Locke e Newton nel cuore del pubblico francese e riuscendo, lui scozzese, a farsi affidare incarichi di rilievo dall'establishment del suo paese. Accingendosi a dare alle stampe una raccolta di sue opere, dove come al solito non compare il trattato giovanile, ma di apporvi una premessa e un'autobiografia in cui ne ricorda la storia, ritorna sui motivi del suo insuccesso, ribadisce che in esso si trova in nuce tutto ciò che ha poi detto in opere giudicate più felici dai lettori, seppur talora aspramente criticate perché immorali, irreligiose, atee. Emilio Mazza ci presenta la vita e il pensiero di Hume come racchiusi tra questi due poli, ma non è una favola solo a lieto fine. Come Talete, Hume dimostra ai suoi detrattori che non soltanto è capace di arricchirsi e di avere successo mondano, ma che può farlo anche attraverso le sue opere. Hume appartiene a quella schiera di intellettuali moderni, che non filosofano vivendo di rendita, di stipendi universitari o di prebende ecclesiastiche, ma che vivono in gran parte dei propri scritti. Il narcisismo e le aspettative di un giovane autore sono il grado zero della sua insoddisfazione per la sorte del Trattato sulla natura umana. Mazza ci spinge a guardare oltre: in maniera avvincente ci mostra che la riflessione di Hume sulle ragioni del suo insuccesso si trasforma in un autentico rovello e assume lo statuto di una riflessione su che cosa sia la filosofia e su come si possa tentare di presentarla efficacemente al pubblico. Hume oscilla con costanza, pur in forme diverse, tra l'autodenuncia della propria incapacità di assecondare i gusti del pubblico e la rivendicazione delle asperità del proprio pensiero. Il filo conduttore scelto da Mazza è quello dell'astrusità (inevitabile?) del pensiero filosofico in generale e di quello humiano in particolare. È una linea di indagine che ci mostra Hume sotto una prospettiva inedita, ci accompagna nella lettura di pagine talora celeberrime, talora invece trascurate dalla critica, e ci illustra anche i rapporti tra l'autore del Trattato, i suoi contemporanei e i predecessori (l'appendice, a firma di Matteo Brega, si incarica di seguire le tracce humiane negli scritti di Nietzsche). L'astrusità (o profondità o paradossalità) ha varie facce: può essere sicuramente un effetto stilistico, un prodotto della maniera in cui si è esposto il proprio pensiero. Non è mai pura forma, perché riguarda anche il modo in cui viene elaborata la struttura argomentativa: come molti filosofi moderni, Hume sperimenta vari tipi di generi letterari, redigendo trattati, saggi, ricerche, dialoghi, storie, confrontandosi quindi con norme stilistiche diverse e con un pubblico differente. Hume è prodigo di consigli ai lettori: un po' come Descartes quando deve fare i conti con la difficile ricezione delle Meditazioni, anche lui spera di evitare fraintendimenti o, ancora peggio, indifferenza e insuccesso, indicando quale sia l'attitudine in cui bisogna disporsi per comprendere appieno le sue opere. C'è quindi un'astrusità solo apparente, che può anche essere la prima impressione del lettore comune o inhumiano: si può superarla cambiando lo stile o la struttura argomentativa. Le lunghe catene dimostrative già da Descartes erano state indicate come difficili da seguire e poi da ricordare: un rimedio a questo tipo di astrusità può consistere nel tentativo, perseguito negli scritti successivi, di abbreviare e semplificare i ragionamenti. Nella stessa direzione va la scelta di passare da un progetto che si vuole esaustivo e anatomico ‒ che prevede la descrizione completa della catena argomentativa, dai principi primi alle conseguenze, e l'elencazione di tutti i pro e i contro ‒ a una tecnica espositiva che invece punta più sulla presentazione dei principi primi, accompagnati da esempi significativi, seguendo uno stile che si potrebbe dire delineativo e pittorico. Si può anche ricordare al lettore che l'attenzione è fondamentale o suggerirgli di ripetere spesso un ragionamento per fissarlo nella mente. Un filo di questa riflessione sullo stile filosofico porta in direzione dell'autocensura e della dissimulazione: quanto è possibile lasciar trapelare delle proprie opinioni su argomenti sensibili per l'ortodossia religiosa? Come disseminare tracce leggibili per i lettori déniaisés? Come costruire un ragionamento in modo che il pubblico possa trarne delle conclusioni, che tuttavia non sono esplicitate nel testo? Tuttavia l'astrusità sembra avere un nesso profondo con la filosofia, che resiste ai tentativi di eliminarne ogni asperità: le sarebbe quindi per un certo verso costitutiva. Spesso Hume ci suggerisce che è caratteristica di alcuni argomenti: la metafisica è sicuramente astrusa, mentre la morale sembra esserlo così poco che in questa disciplina si deve preferire la spiegazione più semplice e ovvia. Eppure, nemmeno nella Ricerca sui principi della morale Hume evacua completamente le problematiche e il metodo del Trattato sulla natura umana: Mazza ci segnala dei rinvii impliciti e anche l'uso delle appendici per far trasparire una sorta di continuità con la prima opera, anche in questo che sembrerebbe lo scritto programmaticamente più distante dalla paradossalità dell'esordio giovanile. L'astrusità, soprattutto, è intimamente collegata con il ragionamento scettico: in entrambi i casi i ragionamenti, oltre a essere lunghi e difficili da seguire, hanno la caratteristica di non ammettere replica (ossia di essere filosoficamente inoppugnabili), senza convincere. Mancando di forza persuasiva, la perplessità che questo tipo di ragionamenti induce in noi è superata non appena distogliamo l'attenzione: la natura riprende i suoi diritti, e ritorniamo alle nostre abituali occupazioni e opinioni. E questo, si badi bene, vale per tutte le nostre riflessioni profonde, non solo per quelle che agli occhi dei più sembrano inutili paradossi. La nostra mente assomiglierebbe quindi a un elastico: possiamo tenderla nello sforzo di seguire attentamente un ragionamento, ma appena questo sforzo finisce, essa ritorna al suo stato naturale. L'unico rimedio per questo tipo di astrusità sarebbe smettere di fare filosofia. Ma è ciò che Hume non sembra affatto disposto a fare: quel che la natura toglie, la natura dà. Se, con il calare dell'attenzione, la natura fa svanire la forza del ragionamento, per riprendere a filosofare basta aspettare il momento in cui siamo di nuovo ben disposti verso gli sforzi mentali e i piaceri che essi ci danno. A Elisabetta di Boemia, che gli chiedeva consigli per curare la sua malinconia, Descartes suggeriva tra le altre cose di dedicarsi pochissimo alla metafisica e ai ragionamenti astratti, e di passare la maggior parte del tempo in piacevoli distrazioni. Hume potrebbe sottoscrivere questo parere, ma aggiungerebbe che lo scettico si dedica alla filosofia in maniera noncurante: asseconda le sue inclinazioni quando lo distolgono dai ragionamenti astrusi, ma anche quando lo inducono a riprenderli. E poiché la filosofia genera piacere, si tratta insomma di coltivare il proprio buon umore filosofico: la peste, insomma, non ne vuole sapere di rimanere in fondo al pozzo e non è neppure veramente pestilenziale.   Antonella Del Prete    

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