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Fabrizia Pinna non è scrittrice di professione. Ha ventisei anni, si è laureata in giurisprudenza a Genova e lì sta facendo pratica in uno studio d'avvocato. La sua vocazione non è la scrittura ma, con ogni probabilità, la vita forense. In questo senso Blonditudo, suo romanzo breve d'esordio contenuto nel suo debutto letterario, è forse destinato a restare l'unica sua opera. Se pure così fosse, il lavoro di Pinna merita attenzione per più di una ragione.
La prima è quella, per così dire, ontologica. Fabrizia Pinna scrive non già perché è vocata a farlo, non quindi animata da qualche misterioso sacro fuoco narrativo o da chi sa che ispirazioni. Eppure, la sua parola riesce autentica, del tutto verosimile; anche il lettore con giusta ragione disincantato e disamorato vi riconoscerà un'urgenza. In seconda istanza, Pinna rifugge da ogni possibile, oggi tanto diffuso autobiografismo. La protagonista di Blonditudo è Juliette, figlia di Betti, ragazza madre e barista per eredità malintesa del padre fuggitivo, ovviamente senza ragione. Che le premesse per il mélo ci siano tutte è cosa nota a Pinna: notevole infatti la sua chiosa alle condizioni di vita della sventurata Betti: "Gli eventi della sua giovane vita, la figlia, il matrimonio per far piacere a sua madre, erano scenari in esubero che avrebbero potuto esserci come no, disegni sul muro parrocchiale che non rendevano meno scadente la recita". Impressiona che un'autrice così giovane abbia tanta coscienza del materiale narrativo che tratta; convince che la consapevolezza non sia usata con intenzioni più o meno metaletterarie, ma per contenere eventuali effusioni di pathos. Con che non s'inferisca che Fabrizia Pinna è un'altra delle innumerevoli, a volte divertenti, più spesso noiose ragazze cattive della letteratura italiana. Pinna è feroce nel controllo dell'aggettivazione, che è ridotta all'essenziale e anche piuttosto scelta; nella sostanziale abolizione degli avverbi; nell'oggettualità, in sostanza, di una storia che da un panorama di oggetti molto visti e persino consumati ha origine.
Poi Betti muore e resta la bambina Giulietta, il cui nome non arriva da Shakespeare ma dalla versione per il cinema di Franco Zeffirelli. Giulietta è figlia postrema di un Lumpenproletariat che una città come Genova, ha conosciuto e conosce molto bene. Ma Pinna è giovane donna troppo accorta per cadere nella trappola del romanzo di denuncia. Racconta allora il passaggio dal collegio, in cui Giulietta è inserita per mancanza di genitori, all'ospedale in cui prende servizio, ragazza-medico giovanissima, di studi prodigiosamente veloci e per questo guardata con alterigia da un tipico primario misantropo e misogino. Subito vi conosce un'altra sventurata, Ana Luz, latinoamericana sardonica e integrata. Di nuovo, ci sarebbe spazio per gli sdilinquimenti, che Pinna evita con cura. Quando Giulietta è al lavoro, il suo tratto si fa se possibile ancora più aspro. Non sembra in grado di concedersi tenerezze, com'è forse ovvio in una persona che dalla vita ha conosciuto soprattutto gli spigoli. C'è però un intermezzo, scritto nella lingua più tersa del romanzo, quasi in sottofinale. È il capitolo 22 (in totale sono ventisette) e racconta un mirabile bacio fra la dottoressa Giulietta Verani e il candido sciupafemmine Antonio??? Fredigosi, "dottore commercialista, luminare in consulenze fiscali. Sua moglie lo credeva in palestra, e in un certo senso non si sbagliava". È a un personaggio di tanto indubbia immoralità che Pinna affida il compito più difficile. L'altrove infido Adriano??? esegue da par suo, come si legge in finale di capitolo: "Aveva perso la verginità a ventotto anni e con un bacio. L'aveva persa e non aveva nessuna voglia di andarsela a riprenderla".
È un genere di costruzione e di pensiero cui si è poco abituati, ma che a Fabrizia Pinna è senz'altro connaturato. Così è anche poco abituale è la sua Giulietta, incarnazione letteraria del bambino nella teoria del principio responsabilità in Hans Jonas. Volendolo o no, Pinna esordisce con un'opera di tensione etica non comune. Avesse soltanto questa dote, ugualmente varrebbe la pena leggerla. Giovanni Choukhadarian
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