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Il libro prende le mosse da una considerazione storiografica: il pensiero politico di Gaetano Filangieri ha dato adito a interpretazioni contrastanti. L'opera dell'illuminista napoletano è stata volta a volta elogiata come "uno dei momenti più alti della sapienza liberale", oppure condannata come un concentrato di "fermenti assolutistici e liberticidi". Una simile diversità di opinioni (questa la tesi di fondo che l'autore argomenta con eleganza) non può essere spiegata interamente con le variabili stagioni della fortuna di Filangieri, ma rimanda a una contraddizione presente nel suo pensiero, sospeso tra un approccio individualista e una tentazione organicista. Le pulsioni liberali, pur fortemente presenti, non si dispiegano appieno perché sono intralciate da un diverso impulso. La volontà di riforma efficace e definitiva, che possa dirsi scientifica (e sia pure di una scienza settecentesca e non positivista), produce un ricasco assolutista; il desiderio di perfezionamento trova così stonati accenti perfettisti. Tale oscillazione è frutto certo di un pensiero apiretico. Le analisi contenute nel libro spingono tuttavia a una considerazione ulteriore. Forse la mancata sintesi che si riscontra nell'opera filangieriana non dipende solo da un difetto concettuale, ma rimanda alla condizione in cui essa venne prodotta. L'Illuminismo, soprattutto quello di una realtà arretrata come quella del Regno meridionale, viveva una condizione dimidiata in radice. Le proposte di riforma non potevano subire la controprova pratica, né potevano sottoporsi alla critica salutare di un'opinione libera. Da qui la tentazione della sistemazione definitiva, che non lasciasse residui. Insomma, la contraddizione del pensiero di Filangieri porta le stimmate della temperie storica in cui fu pensato. Maurizio Griffo
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