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recensioni di Marenco, F. L'Indice del 2000, n. 06
Peccato che sia una puttana mette in scena un amore incestuoso fra fratello e sorella che tutto distrugge e tutto crea intorno a sé; una società incapace di riconoscere la passione, e dedita soltanto a cacciarla come si cacciano le fiere, e con uguali metodi; un delitto efferato ed esaltante insieme, simbolizzato nel cuore stesso della vittima - "ancora caldo ribolle il sangue che presto sarà / ghiaccio e più duro del rigido corallo" - trionfalmente esibito dall'amante/carnefice di fronte a un pubblico-in-scena (ma l'allusione al pubblico-in-sala è evidente) troppo implicato nelle pratiche della rimozione per poter rispondere adeguatamente alla sfida dell'orrore.
Così Ford estremizzava, negli anni trenta del Seicento inglese, gli ingredienti di un teatro che era spettacolo esteriore e sensazionalistico ma anche scandaglio in profondità mai più toccate sulla scena, almeno fino al secolo appena trascorso; un teatro che il Novecento avrebbe riscoperto e ridefinito, con Antonin Artaud, "della crudeltà". È in questo genere di spettacolo che Artaud ritrova le radici dell'esperienza teatrale: "Una vera opera teatrale scuote il riposo dei sensi, libera l'inconscio compresso, spinge a una sorta di rivolta virtuale (che del testo conserva tutto il suo valore solo rimanendo virtuale), impone alla collettività radunata un atteggiamento eroico e difficile".
È lo spettacolo di uomini e di età che cercano la loro libertà oltre il limite estremo, attraverso due processi che devono apparire insieme irrealizzabili e irrinunciabili, l'eccesso che sovverte qualsiasi attesa e la liberazione della parola da qualsiasi condizionamento esteriore, da qualsiasi intoppo naturalistico. Ford è il drammaturgo di queste stagioni, e i suoi testi - dobbiamo menzionare almeno Il cuore spezzato, altra grande proposta di parola che si separa dal sentire comune per contemplare imperturbabile lo scatenamento delle passioni - sono icone a un tempo dell'inevitabilità dell'eroismo e della necessità della sua caduta e distruzione tragica.
Ha ragione Viola Papetti a sottolineare come questa tragedia abbia "in sottotraccia un movimento a ritroso, come se l'azione, invece di snodarsi davanti ai nostri occhi, fosse invece già tutta trascorsa e noi, insieme ai due fratelli [i tragici protagonisti dell'incesto], la contemplassimo da dopo la loro morte": è l'effetto di una re-invenzione e ri-formulazione della natura in contrasto con le regole civili, che distrugge il senso del tempo e ci fa vivere la tragedia, ogni singola tragedia, come ripetizione e attualizzazione di un sacrificio primigenio, sepolto nella nostra coscienza sotto strati di convenzionalità e ora finalmente restituito alla luce. Al culmine di questa azione, Giovanni il fratello incestuoso si interroga con Annabella, sorella-amante-vittima, su quale sarà il loro destino dopo la morte, e contro la figura di un aldilà fatto di paradisi e di inferi innalza tutto il potere del sogno, sovrumano e insieme fragilissimo everso-
re dell'ordine delle cose: "Un sogno, un sogno; se no in quest'altro mondo ci conosceremmo".
Ad Alberto Rossatti va il merito di rese come questa: "io, inaurato del sangue / di una bella sorella e di un padre sventurato".
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