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Potè sbagliarsi anche John Constable, meraviglioso artista di carri e fattorie e enormi campagne inglesi, quando vide dal vivo tre tele di David e disse: "David sembra aver formato la propria mente a tre fonti: il patibolo, l'ospedale e il bordello". Forse troppo casto allora per quel fuoco realista che il genio francese seppe restituire nella propria opera, ma ci pensò Baudelaire a strappare alla verità del suo Marat la sua fonte autentica, scrivendo: "Divino Marat, ferita sacrilega, tutti i particolari del dipinto sono storici e reali come un romanzo di Balzac. Il quadro ha tutta la fragranza dell'ideale. C'è nell'opera qualcosa di tenero e doloroso". Ecco appena uno dei piani su cui invitare alla lettura di questo saggio, quest'unione di terrore e reverenza insieme fusi in un quadro che da solo è carne di leggenda. Ma si viaggia in altri non con minore pregnanza. Ginzburg ci parla della "storiografia come sentinella di immagini sensibili, col suo elemento visivo centrale". Dunque il dito puntato alla chiamata alle armi di Lord Kitchener, icona dell'autorità poi rivisitata in altre varianti ed eco di somiglianze e rimandi, da Plinio ad Apelle, a un Cristo di Dirk Bouts o al dito di un disegno di Pontormo che definire sublime è appena un sussurro. Poi lo Stato come bilancia di una Paura che trova un suo equilibrio (è davvero così?), il Leviatano assestatore che incute soggezione nella declinzione del verbo "To awe". Tremende le pagine sull'eventualità dell'oggi alla fine del saggio su Hobbes, dove è in gioco ogni nostro filo di sopravvivenza. E poi Guernica, la libertà che dalla tragedia greca alle bombe del '900 diventa stilla immortale di un male proteiforme, sempre quello e nuovo sotto i nuovi rovelli figli della propaganda, della pubblicità, delle filologie nelle quali l'arte si perde e si confonde. Fino al primo saggio stupendo, un vaso forse di mano italiana dove i gesti del pathos eterno si abbracciano nei mille particolari dell'opera. Libro magnifico.
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