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L'introduzione densa e circostanziata di Angiolina Arru e di Sofia Boesch Gajano elimina subito ogni dubbio: si sta per affrontare una lettura impegnativa al confronto delle pagine dedicate anni fa da Arlette Farge al "piacere dell'archivio"; e anche di quelle metodologicamente più leggere in cui emerge il rapporto con la storia di Georges Duby, Bronislaw Geremek, Jacques Le Goff e Philippe Ariès. Il modernista Denis Crouzet sollecita la storica americana con lunghe domande, in linea di massima ispirate (credo più a scopo provocatorio che per intima convinzione) da scetticismo decostruzionista, volto a portare allo scoperto percorsi "di opinione" della studiosa, rapporti fra biografia personale e quesiti rivolti al passato, relativismo delle procedure di indagine e ascientificità dei risultati. Eppure, progressivamente, le stesse domande diventano sempre più intrise di un coinvolgimento ammirato, inevitabile di fronte all'impasto di umane ammissioni e di ferreo rigore reperibile in tutte le risposte. Estremizzando, si può affermare che questo è un libro scoraggiante. Scoraggiante in senso buono, perché dà l'idea che solo una mente superiore, arricchita da una cultura vastissima e interdisciplinare, attratta dalle spiegazioni complesse e aliena da ogni semplificazione, può scegliere la strada di una storia professionale così impostata.
Lo schema domande-risposte è articolato per capitoli tematici (Emozioni, Incontri, Costruzioni, Ricordi, Donne) in due casi molto personali (Impegno, Speranze). Sono titoli privi di artificialità, con una sequenza che conduce dalle motivazioni della scelta dell'oggetto di indagine, ai modi di svolgimento della ricerca, all'attendibilità dei risultati. In vari passaggi la biografia sembra aver influenzato il modo di lavorare della storica. La famiglia ebraica e il "non detto" di un lessico familiare (con la componente del "segreto" e la pedagogica reticenza sull'Olocausto) sembrano aver avuto peso nello spingere verso studi di carattere spiccatamente investigativo, alla ricerca di ciò che a tutta prima le fonti sembrano non voler lasciar vedere. Gli orientamenti politici progressisti verso lo studio degli esclusi dal potere e la condizione personale verso la storia delle donne. I contatti con colleghi di università americane (con un interesse per l'Europa che mette naturalmente in dialogo saperi diversi) hanno aiutato un'attrazione per l'interdisciplinarietà, in un primo tempo innervata dalle scienze sociali e poi, prevalentemente, dagli strumenti delle letterature comparate.
Ma tutto ciò rientra nel campo delle "ammissioni" di spinte iniziali immediatamente disciplinate entro regole di mestiere di rara severità, talora ispirate a ipercorrettismo rispetto alle spinte emotive. Alla storia come scienza Zemon Davis crede, e persegue con una certa insistenza un'artigianalità che arricchisce continuamente i propri strumenti di taratura, accantonando il più possibile sia il procedere "per modelli" (da qui la presa di distanza da Michel Foucault) sia i giudizi di tipo passionale. Tutt'altro che artigianale, ma sofisticatissima, è l'attenzione specifica alla performance, da intendere tecnicamente come il modo di espressione in varie forme e degno sempre di doverosa indagine preliminare dei personaggi indagati. La "passione" del titolo italiano non è dunque da riferire a vibrazioni emotive verso le grandi visioni del passato, quanto alla pratica del mestiere, lavoro fatto "di empatia e di distanza" rispetto agli oggetti di studio.
È ispirata a Bloch nel rapporto fra passato e presente, ma non nel senso che la storia possa indirizzare le nostre azioni (introducendo elementi di prevedibilità), bensì perché con la conoscenza delle "possibilità multiple" nel passaggio da ogni fase storica a quella successiva "fa pensare i possibili per il presente". Il lavoro dello storico ha, per Zemon Davis, la responsabilità di dare la parola a chi ha visto la propria voce nascosta o deformata dai contemporanei: non solo le donne (sulla gender history ci sono pagine tra le più profonde e meno ideologiche), ma tutti coloro che non hanno potuto controllare la trasmissione della loro memoria. Re e regine "non hanno bisogno di me", afferma la storica, e con questa frase illustra benissimo una motivazione che è diversa da quella che ha indotto altri a occuparsi dei cosiddetti "esclusi".
Dalle parole di Zemon Davis sembra normale una procedura che invece non lo è affatto. Storici meno eroici individuano un fondo documentario, si mettono al lavoro e ne ricavano, con la migliore attrezzatura metodologica possibile, tutto il ricavabile. La procedura suggerita in questo libro-intervista è opposta: lo storico incontra, quasi per caso, un personaggio, e da quel momento dà la caccia alle fonti, diventando investigatore nelle biblioteche e negli archivi. Non è, ovviamente, il solo modo di fare seriamente il mestiere. Ma è di sicuro quello che richiede il coinvolgimento personale più alto.
Una spiegazione possibile di questa e altre inclinazioni? La fornisce Zemon Davis stessa: non aver avuto un maestro, non appartenere a una "scuola", ma essere inserita di fatto in un "circolo informale", in un "gruppo mobile" che, progressivamente e attraverso la lettura reciproca, costruisce campi d'interesse comuni. L'autrice, dunque, non si sente affatto sola nel sostenere che "le mie preferenze o i miei bisogni, benché presenti, non devono determinare la mia visione storica. Lo storico deve essere generoso, aperto alle tracce, alle voci del passato". La bibliografia completa dell'autrice, con cui si chiude il volume, testimonia di questo obiettivo costantemente perseguito. Giuseppe Sergi
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