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Critico architettonico del "New Yorker", il settimanale che ha ospitato per trent'anni le pagine sferzanti della sua rubrica "Sky Line", Lewis Mumford (1895-1990) è stato uno dei più stimolanti saggisti americani del Novecento; un grande maestro dell'architettura e dell'urbanistica. Eclettico rappresentante dell'élite intellettuale newyorkese, Mumford ci ha lasciato scritti esemplari sui temi più disparati; pagine in cui l'architettura incontra la tecnologia, ma anche la biografia, la sociologia, la filosofia e la critica letteraria. Una vocazione interdisciplinare, quella di Mumford, che si affila e si esalta sul suo tema prediletto: la città e il moderno. Ne risulta una riflessione focalizzata attorno ai nodi e ai modi della costruzione di una città del XX secolo, e in particolare della città che quel secolo meglio di ogni altra rappresenta e riassume: la New York di quel cruciale decennio di crisi e trasformazione che furono gli anni trenta. Si tratta di una trasformazione - osserva Paola Di Biagi nella presentazione del volume - che Mumford spesso "non condivide, e che intende seguire e denunciare con il piglio aggressivo del cronista". Musei, teatri, ponti, parchi, grattacieli, ristoranti, gallerie, il Radio City Music Hall e il Rockefeller Center: ci sfilano sotto gli occhi i mostri sacri che fanno di New York, nel bene e nel male, il simbolo dell'urbanesimo contemporaneo.Animati da un entusiasmo ironico e irreverente, sostenuti dal generoso impegno modernista dell'autore, questi scritti - che ancor oggi rappresentano una splendida, puntualissima guida per chi voglia davvero passeggiare per New York - rimangono un modello insuperato di critica architettonica engagé: testimonianza sul campo di un grande pensatore che non ha mai rinunciato a interrogarsi sul senso civile del vivere e del convivere.
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