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1989
8 maggio 1998
385 p., ill.
9788836804825

Voce della critica


scheda di Migone, G.G., L'Indice 1989, n. 9

Era una Londra fredda, anche se non proprio ostile, ad accoglierli, a guerra non ancora conclusa (oltre tutto mancava il carbone). Erano i primi rappresentanti di un'Italia sconfitta, ma finalmente liberata, a recarsi all'estero. La nuova Italia aveva destinato antifascisti di chiara fama nelle principali ambasciate: Saragat a Parigi, Tarchiani a Washington, Carandini a Londra. Carandini, come gli altri, era accompagnato da uomini di carriera scelti con particolare cura tra coloro che non si fossero distinti per meriti fascisti, insofferenti alla precedente sbornia nazionalista - che, negli anni dell'immediato dopoguerra, si dimostrava sorprendentemente dura ad esaurirsi - ma dignitosamente consapevoli di rappresentare un'Italia nuova e diversa. Il diario di Elena Carandini (che è figlia di Luigi Albertini, nel 1926 allontanato dalla proprietà e dalla direzione del "Corriere della Sera" per demeriti antifascisti) racconta la vita, sua e di suo marito (dapprima ministro liberale a Roma e poi, per l'appunto, ambasciatore a Londra) e del gruppo di persone che li accompagnava.
Il loro atteggiamento era peculiare. Fin dai primi giorni dopo la liberazione di Roma avevano a che fare con gli Alleati - militari, diplomatici - che non di rado avevano simpatizzato con il regime fascista precedente. Un motivo ricorrente di comprensibile irritazione di Elena e Nicolò Carandini a Londra era di dover subire gli strascichi dei successi diplomatici e mondani di un loro illustre predecessore - Dino Grandi, già ministro degli esteri di Mussolini - che era rimasto nel cuore dell'Inghilterra conservatrice. Non era facile, forse nemmeno giusto accettare che gli ex filofascisti anglosassoni imponessero con intransigenza alla democrazia italiana - che almeno Churchill aveva cercato di limitare e condizionare con ogni mezzo - lo 'status' di potenza sconfitta e, quindi, obbligata ad assumersi tutte le responsabilità e gli oneri conseguenti del regime precedente.
Scrive Elena, il 21 febbraio 1946: "...lo scontro [di Nicolò] col nuovo Segretario Generale del F[oreign] O[ffice], Sir Orme Sargent, è stato antipaticissimo. Quel vecchio vitello instupidito dalla routine è paralizzato da mille pregiudizi e nostalgico di Dino Grandi, che tanto ammirava. Il gusto pei nostri avventurieri genialoidi e infidi è la depravazione di tanti sciocchi gentiluomini anglosassoni". Insomma, proprio i vincitori che con maggiore ritardo si sono accorti del pericolo fascista, forse per farsi perdonare si dimostravano più severi e intransigenti nel far pagare all'Italia democratica le colpe del regime precedente. Quando poi i nostri inviati tornavano a Roma, dovevano scontrarsi con i luoghi comuni ancora correnti da quelle parti: "Oggi, al 'Ritrovo' [un circolo organizzato a Palazzo Caetani alfine di favorire contatti informali tra gli occupanti e la nuova classe dirigente italiana] parlava Ruggero Orlando, dei partiti in Inghilterra, dei problemi della pace. Una chiara esposizione tendente a dissipare i troppi malintesi. Che quando ha finito di parlare risaltano fuori, per bocca di politici, professori, professionisti. Sono i residui dannosi dei pregiudizi e dei risentimenti cresciuti con loro. Gramigne del recente passato, rifioriture nazionaliste. Ben pochi gli immuni. Nell'opinione corrente, l'Inghilterra, ritenuta comodamente dal fascismo un'imbelle, essendosi presa la libertà di vincerci, deve mostrarsi ora benevola e premurosa verso di noi innocenti. Sdegno se tale non si mostra " (p. 105).
Insomma, i gas della guerra non si erano dileguati, a Londra come a Roma, e Carandini, con il piccolo gruppo di famigliari e di collaboratori, era costretto a respirarli, cercando di non lasciarsene intossicare. I primi studi, fondati su un'adeguata documentazione (in particolare di Antonio Varsori ora confermati dai diari di Elena Carandini) mostrano con quanto coraggio politico l'ambasciata di Londra sostenne in quegli anni posizioni impopolari anche presso i governi democratici di Roma che dovevano fare i conti con un'opinione pubblica borghese, frustrata e nazionalista. Per esempio, più volte l'ambasciata fece notare a Palazzo Chigi l'incongruità di una difesa ad oltranza delle colonie presso un governo laburista che, pur a capo di una potenza vittoriosa, era impegnato nella liquidazione del proprio impero. Basta riflettere sulle conseguenze che avrebbero potuto avere successivi conflitti coloniali e postcoloniali per la nostra fragile democrazia repubblicana - l'esempio della Francia è chiaro in proposito - per valutare l'importanza di una simile consapevolezza.
I "Diari" sono una testimonianza di prima mano su alcuni momenti costituenti della nuova politica italiana. Vediamo dietro le quinte De Gasperi che si prepara ad affrontare la Conferenza per la pace ("Tutto tranne la vostra personale cortesia è contro di me"...), ma anche i conflitti all'interno di un partito liberale lacerato tra un conservatorismo filomonarchico e un liberalismo più moderno, di ispirazione anglosassone (rappresentato anche dallo stesso Carandini). Caduti gli schieramenti nazionalisti imposti dalla guerra, gli uomini e le donne di buona volontà, di ogni paese, imparano di nuovo a riconoscersi. La nuova ambasciata d'Italia a Londra era permeata dalla simpatia e dall'ammirazione che suscitava il ministro degli esteri laburista, Ernest Bevin, mentre i ministeri romani erano dominati da un'alleanza di uomini politici che intendevano solo il richiamo di Washington e di funzionari nazionalisti (per non dir di peggio), sospinti nella stessa direzione dal risentimento nei confronti dei vincitori europei.
Elena Carandini sente, vede e comprende tutto. Osserva, legge, s'impegna sul terreno che le era più proprio (non quello mondano, ma della ripresa dei rapporti culturali tra i due paesi). Ho insistito sui contributi che i suoi "Diari" offrono alla storia della nostra politica estera (come ha fatto anche Sergio Romano nella sua puntuale prefazione), ma essi sono anche uno straordinario documento di storia sociale della nostra classe dirigente; un testo ben diverso da ciò che proclama di essere, "robetta [...]senza all'uno stile e troppo ingenuo" (p. 318). Se fossimo meno pigri e distratti riconosceremmo in queste pagine lo stile e la materia prima - indispensabile agli storici desiderosi di andare oltre la documentazione ufficiale - che solo alcuni grandi diaristi inglesi (penso ad Iris Origo, a Harold Nicholson, ma anche a protagonisti come Churchill e MacMillan) hanno saputo esprimere sugli anni di guerra.

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