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Il rifiuto della tesi sacrificale di Giuseppe Zigaina presso gli amici di Pasolini deriva forse da questo fatto: se Zigaina ha ragione – e la sua idea è certamente molto più pasoliniana di quella di un complotto, se, come letterati, dobbiamo/dovremmo leggere i fatti secondo gli strumenti della letteratura –, Pasolini “rinuncia alla vita” (Tutte le poesie, vol. II, p. 34) coscientemente, senza tenere conto di una “banda” che non riconosceva e rispetto alla quale si proponeva come uomo solo ("Non ho banda, Montale, sono solo"). Questa vedovanza programmata, se Zigaina ha ragione, è troppo aspra da sopportare. Gli amici devono avere amato sinceramente Pasolini, e tengono molto a dichiararlo (Sergio Citti: “Non c’erano segreti tra noi”). Coerentemente, dichiarano l’impossibilità del suicidio per delega o del cupio dissolvi, a costo di usare argomenti banali o extraletterari (ancora Citti: “Pier Paolo non voleva morire, uno che vuole morire non va a Milano a rifarsi i denti un mese prima”; Nico Naldini: “Era pronto a dire sarò un vecchietto allegro, conto sul fatto che i miei parenti sono tutti longevi, sua madre infatti è morta a quasi novant’anni. Aveva successo, aveva soldi…”). L’amore degli amici, anche intellettuali, si attiene ad un piano letterale, e non letterario, dei fatti; fraintendendo così la dignità continuamente letterario-profetica di Pasolini. Non a caso Fulvio Abbate racconta che Dario Bellezza non riuscì a capire la dedica “A Dario, smentita vivente, il non smentito Pier Paolo”.
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