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E' il classico libro che rimpiangi di aver finito di leggere quando arrivi in fondo. Più che un romanzo nel senso classico del termine è una raccolta di racconti, che però hanno più di un filo conduttore. Fondamentalmente è pervaso da quel clima ironico-amaro che si trova in parte dei libri di Stefano Benni, a tratti ti accorgi che stai ridendo da solo, mentre leggi. Non è chiaro, ma forse l'effetto è voluto, se i mitici anni Settanta e Ottanta della Parrokkia progressive siano per fortuna finiti o purtroppo finiti. Nella finzione narrativa ci sono anche riflessioni ecclesiologiche e liturgiche abbastanza importanti. Non è chiaro infine, se certi refusi sono stile o editing approssimativo. Chi è Renato Ceres? Se è uno pseudonimo ha scritto anche qualcosaltro?
C’è stato un tempo in cui anche (o soprattutto) a Reggio Emilia tanti giovani vivevano attorno alle parrocchie di una Chiesa post-conciliare e vi impiegavano le loro migliori e genuine energie, credendo di essere davvero nel mondo migliore possibile; un tempo di esperimenti liturgici e musicali, ministri di culto promotori instancabili di attività aggregative ed accesi tifosi calcistici, di ritiri avventurosi e chiese frequentate da «catto-com» in trasferta. Quel mondo è raccontato ora in un romanzo dal titolo Parrokkia progressive, pubblicato dalla milanese Lampi di stampa: lo ha scritto un professore reggiano, con lo pseudonimo di Renato Ceres. Lo pseudonimo scelto dall'autore fornisce alcune piste di riflessione: Ceres è il nome della birra danese che lui abitualmente consuma («la mia medicina», «la fialetta ricostituente», come la chiama il personaggio nel libro), ma è anche un riferimento ad una possibile origine istriana del protagonista che funge da file rouge per tutto il libro. L’Istria come patria perduta fa capolino più volte, e poco importa che Ceres, più che un cognome istriano, sembri di origine castigliana. «Il mio libro – spiega Ceres – è una sorta di epitaffio su un’epoca definitivamente chiusa, in cui si respirava davvero la volontà, la smania ribollente di fare nuove cose, che però col tempo è stata irregimentata e si è spenta». Egli narra in prima persona quasi tutte le vicende, mentre in alcuni momenti cede il racconto all’amico Franco Benatti, che come lui apre la storia da bambino e la conclude da adulto; ogni pagina vive e si anima in modo accattivante. I luoghi della storia, benché nascosti sotto altri nomi, sono ben riconoscibili per chi ha vissuto a Reggio un determinato periodo recente e “magico” («Io credo che tutti quelli che sospendono il giudizio e non indagano e non raccontano lo specifico dei vent’anni che vanno dal ‘75 al ‘95 – dice l’autore nei «prolegomeni» – abbiano solo una gran invidia per quelli come me e Franco Benatti, che hanno avuto vent'anni per vent'anni»).
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