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Piccolo capolavoro, d'altronde come tutta l'opera di HdB!
Leggere Balzac è sempre un'esperienza emozionante: tanta eleganza stilistica e profondità di pensiero. Al di là della vicenda narrata che, necessariamente, passa in secondo piano. Non dev'essere facile tradurre questo autore, dotato di intriganti capacità espositive davvero fuori dal comune.
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Protagonisti della storia: due vecchi preti e un'attempata zitella. Ambientazione: un chiostro umido e buio all'ombra della cattedrale di Tours. Riassunto dell'intreccio nella formulazione essenziale di Taine: "Un pover'uomo disperato perché non trova più le sue pantofole". Da simili premesse parrebbe difficile trarre qualcosa di avvincente, o anche solo di mediamente sensato. Ma se ci si chiama Balzac, con questi ingredienti si può costruire un piccolo romanzo che rivaleggia in grandezza con Illusioni perdute (il giudizio è di Proust).
Le Curé de Tours, pubblicato per la prima volta nel 1832, illustra in effetti alcuni dei motivi cruciali della Commedia umana. Innanzi tutto la peculiarità dei tre singolari protagonisti, "un vicario tonto, un canonico ambizioso e una zitella vendicativa", sta nella scelta o nell'obbligo del celibato che li accomuna. Il testo fa parte di una microsezione della grande opera intitolata appunto Les Célibataires, i celibi, destinata a illustrare quella teoria energetica balzachiana esemplificata anche nella famosa Pelle di zigrino, che s'accorcia al compimento dei desideri del protagonista, insieme alla sua vita. La forza passionale risparmiata da queste vite sterili si riversa in attività compensatorie: per il canonico sarà l'intrigo che lo conduce alla mitria vescovile, mentre il parroco di modesta intelligenza si realizza tutto nell'agognato possesso dell'alloggio dei suoi sogni, un confortevole appartamento da cui l'altro prete, in combutta con la zitella proprietaria dei locali, riuscirà a scalzarlo. Quest'ultima è a sua volta motivata dall'ambizione di formare un suo salotto, che il parroco ha storditamente frustrato. Egoismo e interesse dominano i comportamenti di tutti i personaggi: i due religiosi appaiono entrambi meschinamente aggrappati alle cose terrene, carriera ecclesiastica e ricchezze materiali, e non recano alcuna traccia di vita spirituale. Ne esce uno spaccato di vita ecclesiastica decisamente corrosivo, che la critica ha accostato alle pagine più anticlericali del Rosso e il nero. Ma è alla zitella, vera "anomalia sociale", che Balzac riserva gli strali più pittoreschi. Essendo le donne, come ognun sa, destinate per natura al sacrificio, appare particolarmente abietto ch'esse vi si sottraggano con la scusa di non trovar marito: "Brutte, la bontà del carattere avrebbe dovuto riscattare le imperfezioni della natura; belle, la loro sventura deve aver avuto cause ben gravi. Non si sa quali, fra le une e le altre, meritino maggiore ripulsa".
Non è certo questa visione decisamente fuori moda della vita single a fare del Parroco di Tours quel gioiello che la critica vi ha da tempo riconosciuto. Quel che lo rende un capolavoro è la capacità propria del romanziere di dare proporzioni epiche persino a una banale lite tra inquilino e proprietaria, ingigantendola nell'ambientazione provinciale, dove ogni scarto dal ritmo abitudinario della vita crea un evento suscettibile di interpretazione. È vero che in Balzac persino le portinaie sono geniali, perché il suo realismo visionario riscatta anche e soprattutto il quotidiano, accordando dignità romanzesca a fatti e personaggi fino ad allora trascurati: la parabola esistenziale di un onesto profumiere non è meno interessante di quella di un imperatore romano, e può anzi esser più istruttiva agli occhi di un lettore moderno.
Ma nel Parroco, come nota giustamente Pierluigi Pellini nella sua postfazione, si va persino oltre, promuovendo un eroe assolutamente privo di qualità più vicino agli inetti protagonisti del romanzo del primo Novecento che al "tipo" balzachiano, grande anche nell'essere vittima. È degno di nota che Balzac scelga di consacrare nel titolo proprio il più abulico fra i tre personaggi principali: se il prete ambizioso e la zitella che concepiscono il diabolico piano hanno una loro grandiosità malvagia, risultando così più conformi ai normali canoni rappresentativi del romanziere, il curato loro zimbello ci appare solo un povero ometto compiaciuto delle sue tappezzerie. Nessuna grandezza in lui, solo un meschino egoismo che si esaurisce nella spasmodica cura del proprio comfort. D'altro canto, l'attenzione agli infimi dettagli del quotidiano rende questo piccolo romanzo esemplare di un altro cardine della poetica della Commedia umana, la tessitura del testo come paradigma indiziario da svelare attraverso un'accurata lettura, cui corrisponde l'attività ermeneutica dei protagonisti della storia.
Seppur tonto, persino il parroco comprende infine attraverso alcuni particolari solo apparentemente insignificanti la guerra che gli è stata dichiarata: fuoco spento, candela dimenticata, pantofole spostate sono i dati dell'enigma da interpretare per arrivare alla verità della sua disgrazia. Il meccanismo deduttivo, su cui si fonda del resto quel genere poliziesco di cui Balzac è uno dei fondatori, considera tutto il reale uno sterminato campo di indizi rispecchiato nel racconto anche con le famose, e da taluni considerate micidiali, descrizioni "alla Balzac", che tuttavia, se lette con il piglio del detective, svelano il vero attraverso i dettagli più futili: "Di quelle sciocchezze era fatta la sua esistenza, la sua cara esistenza piena di occupazioni nel vuoto e di vuoto nelle occupazioni; vita monotona e grigia, in cui i sentimenti troppo forti erano sciagure, in cui la mancanza di emozioni era felicità". Nel mondo di Balzac, nel nostro, il romanzesco accoglie anche simili tragedie, e ci si appassiona alle disavventure di un mediocre, privato della sua piccola felicità fatta di un letto con cortine di seta e biancheria profumata al giaggiolo.
Patrizia Oppici
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