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Le parole che toccano sono quelle che l'analista deve imparare a offrire al suo paziente in una forma che possa toccarlo, cioè emozionarlo o stimolare la sua riflessione e il suo pensiero. Danielle Quinodoz introduce in questo suo libro, il concetto di "costituzione eterogenea dell'Io" che "si trova in ciascuno di noi in proporzioni che variano a seconda delle persone che possono evolvere con il tempo".
I pazienti eterogenei temono di scoprire in loro quel "qualcosa" di arcaico che sentono come folle, o meglio come causa della loro follia e sofferenza. Queste paure possono attenuarsi se l'analista è in grado di verbalizzare ciò che il paziente prova. Nel discutere il caso di Albert, l'autrice parla delle esperienze traumatiche del suo paziente ma non si sofferma troppo sul concetto di trauma precoce e sulle difese e fantasie che sono alla base della eterogeneità della sua personalità. Sono fantasie e difese che sono forse depositate nella memoria implicita del paziente e che costituiscono il suo inconscio non rimosso che l'analista dovrà riportare alla luce per una sua verbalizzazione anche senza il ricordo. Questa dimensione transferale e controtransferale, tuttavia, non è discussa nel testo, anche se Quinodoz coglie le possibilità per il "linguaggio che tocca" di non limitarsi a verbalizzare pensieri, ma anche sentimenti e sensazioni al punto che lo stesso linguaggio viene definito come "incarnato". Particolare importanza viene data alla voce materna che caratterizza le esperienze prenatali e neonatali e che permette di cogliere nel paziente il senso emozionale delle prime esperienze sensoriali e corporee. Penso che tali esperienze non possano che essere depositate nella memoria implicita. Dimenticate, come dice Quinodoz, ma, a mio avviso, ancora operanti come parti attive di un inconscio non rimosso che accompagnerà l'individuo nel corso della sua vita.
Nell'analisi di Elise, l'autrice si sofferma su un sogno in cui in una vasca un cane ferito sta per morire trascinato in un vortice. In associazione la paziente ricorda un cane che lei avrebbe voluto aiutare, ma non poteva parlare poiché non conosceva la lingua di quel paese. Questa associazione permette a Quinodoz di dire che "forse inconsciamente [la paziente] aveva avuto bisogno di comunicarmi in quel modo un'esperienza precoce precedente alla parola, perché l'aiutassi a trovare un senso. Un'esperienza che forse risaliva ad un periodo in cui lei era troppo piccola per saper parlare". L'analista allora collega il sentimento di vuoto del vortice del sogno all'epoca in cui, da neonata, Elisa era stata separata dai genitori per molte settimane. Un brillante intervento di ricostruzione emotiva di esperienze arcaiche attraverso un'interpretazione che ha potuto risvegliare emozioni collegate a eventi immersi nella memoria senza ricordo.
L'autrice non approfondisce teoricamente questo importamene momento dell'analisi di Elisa né lo collega all'inconscio non rimosso della paziente che poteva riemergere attraverso il processo di simbolizzazione del sogno, pur riconoscendo la necessità di aiutare il paziente a sviluppare le sue capacità simboliche e a creare legami con le esperienze emotive passate a partire dal presente.
Il "linguaggio che tocca" passa attraverso la memoria dell'analista. E non credo possa essere altrimenti. Ma di che memoria si tratta? Esplicita, collegata alle sue personali rimozioni, o implicita, quale espressione del suo inconscio non rimosso? Qui l'autrice non si esprime. Ma penso sia un argomento di estremo interesse e attualità, dal momento che troppo spesso si trascura il ruolo dell'inconscio (in particolare il non rimosso) dell'analista nel condizionare il suo ascolto, la sua comprensione, la sua voce e il suo linguaggio con cui veicola i suoi sentimenti che possono o no "toccare" il paziente.
Quinodoz, anche senza menzionarla, parla di memoria implicita nella ricostruzione di una esperienza precoce. E quando precisa che quella esperienza precoce è priva di significati emotivi consci, l'autrice sta parlando di un'esperienza inconscia non rimossa, i cui affetti sono inconsciamente proiettati. Essa inoltre dimostra di cogliere l'importanza di "mettere in parola" queste emozioni così precoci da permettere all'analizzando di prenderne coscienza.
L'eterogeneità come concetto clinico segna come un filo rosso tutta l'opera di Quinodoz. Tale eterogeneità è tutta interiore al paziente e giustifica la sua angoscia per non poter essere in grado di unire diversi aspetti o parti del Sé in un sentimento di "unità interna". Nell'ottica di Quinodoz, uno degli scopi della psicoanalisi è dunque quello di "fare di una storia eterogenea una storia integrata" e questo scopo è affidato all'interpretazione che deve poter rendere viva e presente la storia interna del paziente, che appare ai suoi occhi lontana e morta, e insegnargli a tollerare la propria eterogeneità.
La identificazione proiettiva e la controidentificazione proiettiva costituiscono due argomenti di grande rilievo nel libro. "C'è un rimando incessante tra i movimenti di proiezione e quelli di introiezione, senza che nell'esperienza fattuale dell'analisi con certi pazienti si possa determinare quali dei due movimenti sia quello iniziale". Questo significa che per l'autrice l'introiezione può avvenire anche senza una precedente proiezione o perfino prima di essa. Quanto poi al rapporto tra proiezione e identificazione proiettiva, Quinodoz passa in rassegna il pensiero di vari autori e differenzia gli aspetti e le parti del Sé proiettati: "Il termine aspetto indica le diverse facce di un io o di un oggetto che restano interi, in opposizione col termine parti dell'io o dell'oggetto che si riferisce alla scissione e al frazionamento dell'io e dell'oggetto". E cerca di mettere a fuoco la differenza tra proiezione e identificazione proiettiva: "La prima avviene con aspetti dell'io e non utilizza la scissione, mentre la seconda si verifica con parti dell'io e utilizza la scissione".
Resta tuttavia una certa ambiguità dal momento che anche affetti e rappresentazioni quali aspetti del Sé possono essere identificati proiettivamente anche senza la scissione. Resta comunque il fatto che "un paziente fa ricorso all'identificazione proiettiva quando non dispone del linguaggio verbale: molto spesso comunica stati, sentimenti o esperienze precoci vissuti prima di sapere esprimere a parole". Siamo dunque nell'area dello sviluppo preverbale e presimbolico le cui esperienze, fantasie e difese, appartengono a un inconscio non rimosso in quanto le strutture della memoria dichiarativa o esplicita (necessarie per la rimozione) non sono ancora mature. È del tutto naturale quindi che l'identificazione proiettiva possa giocare un ruolo nella comunicazione infraverbale dove assume un rilievo dominante la voce, il ritmo, il timbro, la struttura e i tempi del linguaggio del paziente.
La contro-identificazione proiettiva è qui usata da Quinodoz in un'accezione lievemente diversa da Grinberg, che l'ha descritta per primo. Per Grinberg, la contro-identificazione proiettiva è in realtà una risposta ("agita") dell'analista dovuta a una non riconosciuta e non interpretata identificazione proiettiva del paziente. Per Quinodoz si tratta invece di una particolare sensibilità dell'analista nel maneggiare l'identificazione proiettiva del paziente, come uno strumento controtransferale utile per gestire la sua identificazione proiettiva.
Ascoltare Freud e parlare agli psicoanalisti del futuro: è questa la vera sfida della psicoanalisi oggi. Quinodoz coglie questa occasione per affermare che siamo tutti eredi di Freud e del suo pensiero. Ma non tutti fanno dell'eredità di Freud lo stesso uso. Alcuni fanno dell'opera di Freud una lettura che definirei "coranica" e pertanto la congelano e la rendono intrasformabile. Molti di questi camuffano il congelamento con la retorica del "ritorno a Freud", altri disperdono questa eredità creando una specie di Babele delle lingue psicoanalitiche.
L'autrice si pone la domanda: cosa vuol dire essere fedeli a Freud? E dimostra di non credere che cercare nuovi sentieri da percorrere costituisca un'infedeltà all'eredità freudiana. Suggerisce inoltre cautela anche nel trattare con fedeltà gli scritti di Freud, riportando quella frase di Goethe (dal Faust) che Freud stesso ha più volte citato: "Quello che hai ereditato dai tuoi padri conquistalo per possederlo". Prezioso consiglio che purtroppo non facilmente è seguito. Esistono infatti in ogni società dei "dittatori" del pensiero psicoanalitico che usano una certa dose di arroganza intellettuale e intolleranza verso le opinioni e le esperienze degli altri. Queste sono le situazioni più pericolose per l'evoluzione del pensiero psicoanalitico e per la sua trasmissione poiché si caratterizzano per la mancanza di tolleranza rispetto alla eterogeneità del pensiero del gruppo. Ne consegue che gli psicoanalisti delle generazioni più giovani si appiattiscono per imitazione sui concetti di questi "maestri". Concetti che nel tempo diventano delle formule che i giovani analisti ripetono per non pensare con la propria testa e secondo le proprie esperienze.
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