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Non e' un capolavoro pero' Varesi dimostra che se si ha talento si puo' raccontre una storia truce e disperata con dignita'. Non ci sono personaggi positivi, tutti sono colpevoli in questo dramma del progresso, una vicenda che potrebbe essere ambientata in uno qualsiasi dei decenni che seguono il dopoguerra. Che testimonia che da 70 anni nulla e' cambiato in questo disgraziato paese, dove solo e soltanto i furbi riescono in qualche modo a farla franca, ad arricchirsi,senza rispettare una regola che sia una, sbattendosene di tutto e di tutti, pensando unicamente al proprio tornaconto. Ma cosi' un paese muore, magari lentamente, ma alla fine va alla deriva! Di Varesi avevo letto "La casa del comandante" che non mi era dispiaciuto (anche perche' mi ricordava luoghi famigliari...) e avevo visto in TV, di sfuggita e convinto da mia moglie, la serie del commissario Soneri (niente male). Mi sa che affrontero' altre opere...
Recensioni
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Dovranno ricredersi, dopo questo romanzo di Valerio Varesi dagli echi foscoliani, quanti ancora ritengono gli autori di noir scrittori di serie B. Il paese di Saimir è un esempio incontrovertibile di quel che un giallista può fare: un piccolo gioiello dal punto di vista formale, una drammatica testimonianza sociale e psicologica dal punto di vista dei contenuti.
La trama: sotto le macerie di un palazzo resta sepolto un ragazzo albanese di diciassette anni. È clandestino, quindi invisibile, e tale deve restare, da vivo e da morto. Saimir è consapevole della propria invisibilità, che è una "necessità" prima ancora che una condizione esistenziale. E come il poeta che dall'esilio dedicò i suoi versi all'isola natale "A noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura" pensa che non avrà nemmeno una tomba: "Mi butteranno via come si fa con le bestie
invisibile ero e invisibile devo restare, anche da morto".
Dall'altra parte dell'Europa, sua madre Vera pensa ai figli che l'Occidente con i suoi miraggi le ha portato via. Prova il dolore della lontananza e vorrebbe vicino almeno il più piccolo. Allora accende il televisore nella speranza di vederlo: "La televisione che le aveva rapito i figli doveva pur farglieli vedere una volta o l'altra. E Vera passava il tempo a guardare come una madre che aspetta alla finestra (
) era l'unico fuoco rimasto vivo, che lei alimentava con quella sua ossessione di guardare lo schermo per ore cercando di scorgere Saimir".
In mezzo fra i due, il grande deserto umano costituito dall'imprenditore responsabile del crollo, dal capomastro/caporale, dai compagni di Saimir, dai politici, dalla criminalità organizzata. Quando Italo Calvino scrisse La speculazione edilizia (1957) non immaginava certo che la sua denuncia sarebbe stata ancora così attuale più di mezzo secolo dopo: un inferno in terra, una bolgia di interessi e di egoismi, un vociare che trasuda corruzione, un immenso rumore di fondo che disturba il dialogo drammaticamente impossibile tra madre e figlio.
Varesi lascia per una volta le gesta del commissario Soneri, pensoso investigatore padano, e mette in scena un delitto, una "morte bianca", nei suoi aspetti più crudi. Non ci sono indagini, non c'è nessuno che svolga un'inchiesta. In un paese ossessionato dal diritto alla vita, vite come questa non interessano. Non c'è, paradossalmente, nemmeno una scena del crimine, perché questa viene cancellata, non essendo riconosciuta come tale. E non c'è un assassino. O meglio, c'è un assassinio corale, condiviso: è il liberismo che ha generato l'escrescenza abnorme dell'imprenditoria selvaggia, è la criminalità che ne ha tratto ogni possibile vantaggio, e sono anche le vittime veri e propri "vinti" di statura verghiana che, comunque, vogliono prendersi le briciole.
Qual è "il paese di Saimir"? L'Albania è un paesaggio sfocato nel ricordo del giovane che muore, ma è anche la terra dove vive sua madre, e da cui provengono le prostitute bambine di cui incrociamo lo sguardo sui viali delle nostre città. È il paese di una dislocazione, di un altrove a cui non si vuole, o non si può, fare ritorno. O forse, nell'intenzione dell'autore, è la summa di tutti i luoghi della perdita, meta di un nostos senza fine, isola che si fa rarefatta nella memoria limbica, condanna perpetua alla non appartenenza.
Alessandra Calanchi
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