Quando L'orizzonte viene pubblicato in prima edizione presso Feltrinelli nel 1966, la fisionomia della sua autrice ha già avuto modo di svelarsi nel romanzo breve La foresta e la fine (che tanto piacque a Vittorini) e in testi confluiti nel "Menabò" e nell'antologia del Gruppo 63. Ora che le edizioni Polimata ne propongono una nuova edizione, per la cura di Massimiliano Borelli e con un saggio di Francesco Muzzioli, è come se il lavoro di Carla Vasio potesse più nitidamente essere colto e messo a fuoco. Non si tratta infatti di una riproposta casuale. Dall'uscita nella celebre collana "Le comete", Vasio ha continuato negli anni a cercare e sperimentare; che fosse in piena temperie neoavanguardista, o al fianco di artisti come Burri, Capogrossi, Perilli, che si trattasse di poesia o di musica d'avanguardia, la scrittrice originaria di Venezia ha sempre rintracciato e soddisfatto la propria vocazione.
Sono trascorsi quasi cinquant'anni dal 1966. Si è passati, fra gli altri, attraverso Come la luna dietro le nuvole, Laguna (Einaudi, 1996 e 1998), gli ultimi romanzi Labirinti di mare e La più grande anamorfosi del mondo (Palomar, 2008 e 2009). Sempre proponendosi attraverso una scrittura raffinata, intrattenendo con la realtà quel fortunatissimo rapporto capace di intercettarne la condizione piena di grazia e contemporaneamente di non fuggirne i lati oscuri, accettandone il mistero e rendendo lo scacco una tra le forme di conoscenza concesse e anzi preferibili, giocando con le illusioni ottiche, i cambiamenti repentini di prospettiva, in una trasformazione continua e in costante divenire, capace di investire anche le persone e il loro "essere attraversate" dalle cose (secondo una prospettiva cubista, come scrive Muzzioli). È il caso di La più grande anamorfosi del mondo, naturalmente, ma in generale di tutta la scrittura di Vasio, così incentrata sullo sguardo e le sue molteplici e multiformi declinazioni, nel suo prolungarsi e intrecciarsi a partire dall'immagine cinematografica e fotografica, entrambe amate e coltivate, rendendo la scrittura il mezzo con cui suggerire il reale e inoltrarvisi, recuperando la funzione disvelatrice del sogno, della fiaba; quella di Vasio non è narrazione, ma una mappa, della quale, come ha scritto Manganelli sul "Menabò 8", "ha la mentita freddezza, il potere sostitutivo, e un che di eguale e deforme, rispetto a ciò di cui è segno".
E allora, era già tutto lì: nella ripresa sgranata di questa donna intenta a lavorare a maglia su una panchina, in attesa di un confronto sempre procrastinato con un uomo, dilatando il momento dell'attesa, mentre la sua figura si assottiglia e confonde con il trascorrere del tempo, scomparendo e ricomparendo, fra gli oggetti del passato, del presente, accanto a figure di uomini e di donne che mantengono il medesimo tasso di improbabilità e allucinazione, profilo lieve e potente di un io narrante tratteggiato nell'architettura di una trama esilissima, con protagonista lo spaesamento, il movimento apparente, un gioco di specchi sapientemente misurato, calibrato. E ora più di allora, questo orizzonte ha tutta l'aria di aver raggiunto le sue coordinate ideali, stagliato nella costellazione disegnata e prediletta da Carla Vasio. Raffaella D'Elia
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