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«Un battente del gigantesco portone si stava schiudendo e di questo fui cosciente; lo tirava una piccola monaca, la Superiora, e quando fu aperto gli rimase attaccata come una sua appendice». Così Dolores Prato inizia il racconto della propria adolescenza vissuta in un collegio retto da monache, séguito incompiuto di quel Giù la piazza non c’è nessuno che era invece dedicato agli anni dell’infanzia. E si capisce subito che il tempo non ha spento, nella lucidissima novantenne, né il vigore né il livore della memoria: l’occhio che volge su quei tempi remoti è spietato, tutt’altro che nostalgico, e ripercorre con feroce minuzia i luoghi ostili e le regole imprescrittibili della vita conventuale. Non mancano di quei giorni, raccolte in una serie di appunti spesso folgoranti, le parole: parole che, sostituendosi alla parlata comune della provincia maceratese, diventano parte integrante della norma di vita presente e del modello di esistenza futura; parole, soprattutto, che segnano perentoriamente la differenza tra il «dentro» e il «fuori». Ritroviamo così nel libro della Prato i luoghi e i segni e il linguaggio di un mondo perduto, ma prima di ogni altra cosa scopriamo gli indizi inconfondibili – il piglio, la scrittura, la capacità di trasfigurazione poetica – di un vero e proprio caso letterario.
Le Ore è stato pubblicato per la prima volta in due volumi nel 1987 e nel 1988.
scheda di Roat, F., L'Indice 1995, n. 7
Nel 1901 Dolores Prato entra nell'educandato salesiano della Visitazione di Treia: "quell'inutile incubatrice di adolescenti", come la scrittrice definisce con metafora tagliente il collegio di monache dove trascorrerà l'adolescenza, per uscirne solo a diciott'anni, l'animo ferito dai traumi di un'educazione repressiva, ossessionata dal senso del peccato e costretta entro l'angustia di un codice binario obblighi-divieti che non prevedeva possibilità alcuna d'autonomia, lucidità, spontaneità. Ma la segregazione della clausura è anche soprattutto separazione dal mondo, istituendo le ferree regole monastiche un paradigma di alterità assoluta rispetto alla vita che si svolge fuori, oltre la soglia guardata dal "gigantesco portone". Un'alterità che bene esprime il lessico desueto a cui ogni novizia deve informarsi entrando in convento. È, quella delle suore, una lingua aliena, fatta di parole che suggeriscono tutto un altro mondo-modo di essere (come le "celle" in luogo delle camere da letto, o i "refettori" al posto delle sale da pranzo). Non per nulla "Parole" è il titolo emblematico degli appunti - appendice indispensabile di annotazioni che, chiosandolo, completano il testo de "Le ore", sorta di diario, seguito incompiuto del libro di memorie "Giù la piazza non c'è nessuno" (Einaudi, 1980) - in cui l'autrice rimarca i differenti rimandi tra significanti e significati propri di quell'universo chiuso e parallelo. La Prato ha una scrittura nitida, sobria ma vibrante, grazie alla quale può riassumere con straordinaria levità anni di vita assurda, in bilico "tra il vero e l'irreale".
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