Quando hai voglia di suonare una musica che ti rimbalza, villana, nel cuore nella testa e nella pancia devi pensare bene a come tradurla in forme comunicabili, cosa scrivere sulla carta e cosa no, con quale colore il tuo strumento può contribuire a creare la miscela giusta, ma soprattutto a quali suonatori chiedere di completare la miscela e quanto spazio dare alla loro libertà, o viceversa come dar loro istruzioni al fine di non ingabbiarne gli spunti creativi che elaboreranno pungolati dalle composizioni. Insomma sto parlando degli strani equilibri del jazz, fra vincolo e apertura, collettivo e individualità, pancia, testa e cuore. Ma tu hai voglia, e allora ti metti a cercare dentro e fuori di te: scrivi, cancelli, correggi, stracci, fino a che qualche scarabocchio ti rappresenta sufficientemente, e contemporaneamente pensi a quali compagni di avventura meglio possano leggere le tue righe e ancor più fra le righe, oltre le note. E’ un lavoro complesso, ma tu non demordi perché sai che i suoni che ti rimbombano dentro devono assolutamente venir fuori, ne va della tua salute: e allora sii operativo, ispeziona il mondo e trova i musici adatti. Io così ho fatto, e in Marco, Pasquale e Igor ho trovato degli artisti rigorosi e anarchici insieme, capaci di capire quando forzare la scrittura e a chi passare la palla, in quale momento stare al palo e in quale prendere l’iniziativa, qual è il tempo giusto per appoggiarsi agli altri e quale per essere loro di supporto. A quel modo la musica va da sola, si dà un input e magari si chiede anche di rispettarlo pedissequamente ma poi questi signori ignorano l’ordine, e vabbenecosì, vabbenecosì. La creazione prende una forma diversa da quella che avevi immaginato, ma sei stato tu a importi una previsione impossibile, tutto è in mano a 4 musicanti ed alla congiunzione astrale di quell’attimo. Poi ti accorgi che sei contento che l’imprevisto abbia avuto il sopravvento, il pezzo è differente da ciò che avevi pensato ma vabbenecosì, e forse proprio vammegliocosì. A lavoro concluso risenti il tutto e, mmperò, ahò, guardampò chebbello: tanto sai che domani lo suoni e avrà altro colore e altra pasta, ma anche questo fa parte delle regole del jazz, un cielo dove ripetizione e variazione convivono litigando, ma poi alla fine fanno pace e ci bevono su. Il disco è quasi un figlio, e come un figlio ti regala forza ogni volta che ti ci accosti: l’hai fatto tu dopodichè ha vita a prescindere da te, anche se continuerai ad amarlo e a trarne orgoglio, passione, vitalità. Sii sempre forte, musica mia, e aiutami ad esserlo per il futuro. Ettore Fioravanti
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