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L’autore drammatico non è altro, ai miei occhi, che uno storico, ma sta al di sopra di quest’ultimo, perché egli ricrea per noi la storia una seconda volta: invece di fornirci un racconto secco e spoglio, ci introduce immediatamente nella vita di un’epoca, ci dà caratteri invece di caratteristiche, personaggi anziché descrizioni». Così Büchner, autore drammatico, definisce il proprio compito in una lettera alla famiglia del 1835. Aveva appena terminato La morte di Danton, il suo primo lavoro letterario, e neanche venti mesi lo separavano dalla morte in esilio a Zurigo, a soli 24 anni, spesi quasi interamente nell’attività rivoluzionaria e negli studi scientifici. Delle altre due opere, Leonce e Lena e Woyzeck – pubblicate parecchi anni dopo la sua morte – Büchner non parla, almeno nelle lettere di lui che ci sono rimaste. Tanto maggiore ci sembra il prodigio nel vedere come quel giovane abbia potuto precorrere – in queste opere che costituiscono forse il tentativo più audace di rinnovamento che la storia del teatro del XIX secolo conosca – motivi formali e ideologici la cui riscoperta ad opera del naturalismo, e sopra tutto dell’espressionismo alla vigilia della prima guerra mondiale, doveva essere definita da Walter Benjamin come uno dei «pochi avvenimenti politico-letterari dell’epoca la cui attualità deve apparire di una luce accecante alla presente generazione».
Dalla prima rappresentazione di La morte di Danton, curata da Max Reinhardt nel 1916, a quella di Vogt del 1921 con Alessandro Moissi nella parte di Danton, il teatro di Büchner è entrato ormai a far parte del repertorio classico, sia in Germania, sia in Francia che in Italia, dove è ancora recente, tra l’altro, la presentazione alla Scala dell’opera lirica di Alban Berg tratta dal Woyzeck.
L’edizione italiana comprende, accanto alle opere teatrali, tutto quanto egli ha scritto, incluse le lettere, che costituiscono una necessaria integrazione della sua opera e l’unica fonte sicura sulla sua vita, breve e sfolgorante.
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