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recensione di D'Elia, G., L'Indice 1998, n. 1
Niente Nobel per i poeti italiani, ma che bel premio queste "Opere" di Attilio Bertolucci, curate con amore nei "Meridiani", la collana principe di Mondadori. E dovrebbero seguire anche Luzi e Zanzotto, pare. Niente Nobel per la voce privata, viene da pensare, quasi che la voce letteraria, a livello internazionale, venisse identificata sempre con una voce pubblica, civile, spiegata. O quasi sempre. Così che la voce privata, sottrattiva, dei poeti, ha raramente modo di farsi udire. Quella di certi poeti, più difficilmente di quella di altri, magari non specialmente poeti scritti, ma orali, irriverenti, contaminatori (auguri a Fo).
Con Bertolucci, la voce privata della poesia italiana continua nella linea di Pascoli, e di qui il senso di una poesia in velluto e fustagno, robusta di stoffa, concreta. La terra e le stagioni dei vivi sulla terra, con la città, il contado, la casa di famiglia. E la famiglia, cui Bertolucci dedica il romanzo in versi che occupa il centro dell'opera. Certo, questo romanzo non sarebbe stato possibile senza l'intervento degli autori inglesi letti e assimilati a tempo - Wordsworth, soprattutto - col verso lungo della prateria americana che è di Whitman, e il ronzato quotidiano e allegorico di Eliot. L'acuto autobiografismo intellettuale e occasionale delle prose di "Aritmie", le versioni geniali o "Imitazioni" da poeti inglesi, americani e francesi, sono solidi puntelli dell'opera in versi, che trascorre per ottocento pagine fino al compimento nel romanzo famigliare intitolato al massimo oggetto della vita privata: "La camera da letto". Si trova a questo riguardo in qualche modo straordinario il commento dei curatori, Paolo Lagazzi e Gabriella Palli Baroni, che con il loro ascolto del testo e del poeta stesso hanno reso possibile seguire il percorso generativo, oltre che cronologico e narrativo, del poema parentale di Bertolucci.
All'ossessione della morte che era di Pascoli, Bertolucci oppone l'ossessione della vita, la sua ansia contraria di durata, il film da girare dell'esistenza trascorsa. Certo, il modo di scrivere è molto più libero, la metrica è accettata per rifiuti e deviazioni, la rima è molto più rara, l'andatura si fa prosastica, fino a scandire in verso il ritmo della frase, che lo scavalca continuamente; frase spesso lunghissima, ipotattica, sgomenta quasi di se stessa per discese al punto. Strofa a coprire un'intera frase, fin dai primi versi giovanili; strofa a identificarsi con la frase: "A che solenni e dolci / parvenze ora s'affida / la tua la nostra vita / che il sole alto degli anni / con pio raggio rischiara. // Giovinezza è ormai questa / così ardente pazienza / dei giorni che si seguono / sotto un cielo lontano / scolorito dal tempo" ("I giorni", in "Lettera da casa", che è del '51, a ventidue anni dall'esordio: "Sirio", 1929).
Come fosse tutto spesso al rallentatore, leggiamo un'anticipazione del romanzo in versi già nel poemetto "La capanna indiana", sempre del '51, dove l'io e il noi si oggettivano, tra consapevolezza della caducità e constatazione della dolcezza esemplata dalle cose e dagli esseri animati, nella cesura d'ansia dell'"enjambement": "L'erba che tocca fredda i nostri corpi / distesi e accovacciati dentro l'ombra, / i nostri visi nascosti, i ginocchi dolenti, / è già una dura erba d'inverno, morta. / Eppure è il tempo più dolce dell'anno / quando la siepe brulla che recinge / del suo braccio il deserto dominio / si fa intima stanza allo smarrito / passero già colore della terra" ("poetica dell'extrasistole", o ritmo del colpo perduto, dello smarrimento metrico da falsa prosa). La morte, il senso della fine, sono auscultati in forma narrativa, fratta-distesa, con vicende precise di gesti, compagni, solitudini, morbidi referti di microsensazioni di gioia e di sgomento, a marcare un sentimento dominante in Bertolucci, che già si è tentato di definire come "nostalgia del presente". Eppure, anche la capanna indiana è una piccola capanna contadina, di attrezzi e di giochi infantili, un oggetto pascoliano, umile, non più segno di morte ma di vita, di nostalgia della vita e del presente, della presenza: "Un luogo è quale stilla nella mente / del fanciullo ai giorni che la rondine / va e torna (...) / Qui siamo giunti dove volevamo".
E siamo a una complessa semplicità proustiana, che risponde al distacco dai luoghi (l'Appennino parmense, Parma, Casarola) con l'estenuazione della memoria fisica delle percezioni, dopo il trasferimento a Roma nel '51. L'impasto di nevrosi e nostalgia dell'esilio romano porterà Bertolucci a scivolare sui giorni privati con una cadenza di affetti e lacerazioni, in cui il tema del colloquio coi vivi e coi morti è centrale, nella costruzione di un unico libro coerentemente parentale, dove la storia pubblica entra di sbieco restando sullo sfondo, per fare ingresso di nuovo nel romanzo in versi col racconto della guerra e degli sfollamenti nelle campagne.
Comunque, nelle varie raccolte di poesie lirico-narrative, tra gli anni cinquanta e settanta, fino alle ultime, colpiscono certi snodi, o addirittura certi testi-guida, memorabili, che basterebbero per fare di Bertolucci un grande poeta, anche se non avesse scritto "La camera da letto". Pensiamo a poesie come "Gli anni" o "Piccola ode a Roma", dove risuonano i due motivi-chiave di Bertolucci secondo questa indicativa lettura: la nostalgia del presente nella provincia italiana, e l'indifendibile privilegio dell'amore nella realtà uniformante di una metropoli, di una capitale mediterranea. Come scrive Lagazzi, "un po' di luce vera", che dallo "spleen* felice del canzoniere parentale e coniugale arriva al cuore d'ombra dell'io storico.
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