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recensioni di Pietromarchi, L. L'Indice del 2000, n. 11
"Notre maître à tous": così Proust definiva Flaubert in un memorabile saggio del 1920, confermando quel tributo di riconoscenza che già avevano espresso prima di lui Maupassant e i naturalisti, e che nel Novecento verrà ribadito da Queneau a Borges, da Calvino a Vargas Llosa. Ma in questo generale omaggio occorre distinguere almeno due diverse motivazioni. Agli occhi della generazione di Zola, Flaubert è prima di tutto l'autore di Madame Bovary, il romanzo che con perfida lucidità critica e intelligenza tecnica ha definitivamente sospinto il romanticismo del primo Ottocento, con i suoi paesaggi e il suo afflato spirituale, i suoi orpelli e desideri, nel regno dell'inautentico. È una generazione grata a Flaubert di aver spostato negli scaffali più alti della biblioteca tutti quei libri che avevano fatto l'educazione di Emma, da Byron a Scott, ma altresì di essere riuscito quanto meno ad allontanare l'ombra immensa portata dall'opera di Balzac sull'arte del romanzo. Sarà difatti nel confronto, spesso esplicito, con Balzac, che Flaubert lancia la sua sfida più coraggiosa, e il percorso che va dai suoi primi racconti a Madame Bovary segna le tappe di un processo di disintossicazione finalizzato a liberare il suo secolo dalle tossine romantiche che inibivano un rapporto diretto con la realtà e con la sua irriducibile complessità. Ovvero con una complessità non riducibile, come invece faceva Balzac, a una dinamica elementare e unitaria, controllata dalle leggi dell'or e del plaisir - che sono l'alfa e l'omega di un universo definito, e quindi spiegabile, che riconosce nella Speculazione la sua divinità e nel romanziere il suo profeta.
È questa visione complicata ma non complessa della realtà, e quindi l'ambizione di prestarle un senso univoco, che Flaubert archivia per sempre con le ultime parole di Charles Bovary, il primo dei suoi personaggi la cui grandezza risiede precisamente nella sua pochezza: "è colpa della fatalità". Parole di resa e di abbandono che fissano al 1857 la fine di ogni pretesa di spiegare in modo coerente una realtà che, a partire da questa data, potrà essere solo seguita nel suo andamento discontinuo, nella sua proliferante disseminazione e nel mistero del suo farsi e disfarsi. È questo il nuovo, vasto e indeterminato territorio che Flaubert consegna alla modernità, estenuandosi fino alla fine dei suoi giorni nel tentativo di racchiuderla nella forma definita del racconto e del romanzo, ma con l'imperativo di preservarne l'infinita mobilità e fluidità. Da questa prometeica sfida della scrittura nei confronti di una realtà che nega ogni principio di unità risultano i suoi ultimi capolavori, L'educazione sentimentale, La tentazione di sant'Antonio, i Tre racconti e Bouvard e Pécuchet, ora riuniti nel secondo e ultimo volume delle opere complete di Flaubert curate da Giovanni Bogliolo per i "Meridiani" Mondadori.
Si tratta di un'ammirevole operazione editoriale, di grande rilievo linguistico e di ampio respiro critico, destinata a segnare durevolmente gli studi flaubertiani nonché a condizionare la futura edizione francese di Flaubert nella "Pléiade". Non si è fatto ricorso a precedenti traduzioni, ad eccezione della Tentazione del 1874 (Agostino Richelmy, Einaudi, 1990): l'Educazione sentimentale è stata ammirevolmente tradotta dallo stesso Bogliolo, il quale si è ugualmente fatto carico (e che carico!) della prima traduzione completa della Tentazione di Sant'Antonio del 1849; a Giovanni Raboni si deve la versione dei Tre racconti; Ernesto Ferrero ha invece nuovamente tradotto Bouvard e Pécuchet, il Dizionario delle idee correnti e il Catalogo delle idee chic; il Candidato, incerta prova teatrale di Flaubert, è invece presentato nella traduzione di Giuseppe Montesano. Proust paragonava la frase di Flaubert, a un ininterrotto tapis roulant, che drenava nel suo svolgersi impressioni, annotazioni e descrizioni seguendo un ritmo mai scosceso, ma implacabile come la forza che sospinge passivamente ogni cosa al suo dissolvimento. Ed è precisamente tale fluidità che, nel loro complesso, queste nuove traduzioni sono state capaci di ritrovare, rinunciando a quel registro linguistico sempre troppo letterario con il quale l'italiano molto spesso ha patinato la semplicità e la chiarezza del francese. Alla trasparenza orale del suo stile Flaubert teneva tanto da sottoporre le sue frasi al vaglio della lettura ad alta voce. Ogni questione di stile è anzitutto questione di ritmo. E ognuna delle traduzioni presentate è compiuta nel rispetto di questo principio cardinale della lingua francese: sono perfettamente ascoltabili.
Tutte le opere sono precedute da una ricca introduzione informativa e allo stesso tempo esegetica, e quindi corredate da un importante apparato di note che non si limitano a chiarimenti lessicali, ma che prolungano e completano il discorso critico introduttivo facendo spesso ricorso alle varianti per mostrare il lungo percorso, letteralmente il travaglio, che ogni riga di Flaubert ha dovuto seguire prima di trovare la sua forma definitiva. Nella vastità del materiale disponibile, i curatori, conferendo anche all'apparato critico una sua ben riconoscibile omogeneità, hanno privilegiato quelle varianti e quegli snodi che evidenziano soprattutto i problemi di ordine compositivo che la rivoluzione flaubertiana del romanzo poneva.
Il passaggio da Balzac a Flaubert è racchiuso in un anagramma: la causalità diventa casualità. La spirale romantica centripeta che dal molteplice si innalzava verso l'unitario, con Flaubert inverte il suo movimento e seguendo una progressiva accelerazione scioglie tutti quei vincoli che collegavano vicende personali e piano storico, un fenomeno a una ragione scientifica, un mistero a una religione rivelata. La pagina, e la frase, si dilatano per accogliere vicende intersecate, enumerazioni, accumulazioni, cataloghi, che fanno di ogni personaggio l'attonito spettatore della dissoluzione della propria fede, passione o ambizione conoscitiva.
Come garantire, in un simile contesto, unità compositiva, rigore strutturale e coerenza dell'insieme al romanzo? Ognuna delle introduzioni dei curatori, Giovanni Bogliolo, Daniela De Agostini, Piero Toffano, Patrizia Oppici, offre a questa domanda altrettante risposte che costituiscono nel loro insieme un importante saggio critico sulla tecnica flaubertiana del racconto. L'interferenza dei piani narrativi come principio strutturale dell'Educazione sentimentale individuata da Bogliolo, le strategie compositive che governano il delirio di sant'Antonio ricostruite da Daniela De Agostini, i Tre racconti letti da Toffano come altrettante variazioni sulla voce narrativa, la radicale applicazione del discorso indiretto libero in Bouvard e Pécuchet analizzata da Patrizia Oppici sono altrettante chiavi di lettura che dischiudono le porte di quel laboratorio, la stanza dell'eremita di Croisset, nel quale, dal 1851 al 1880, è stato inventato il romanzo moderno. È un fatto che la scuola italiana degli studi flaubertiani avviata da Luigi Foscolo Benedetto gode di ottima salute. Ne è cauzione la bibliografia messa a punto da Daniela De Agostini, nonché il carattere impeccabile di questa edizione.
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