L'allusione, la polemica, la parodia, le riprese metrico-sintattiche, le citazioni esplicite, nascoste o dissimulate sono le più prevedibili modalità di confronto con il grande poeta ottocentesco. A esse, però, s'affianca qui una costante attenzione al ricorrere di immagini care a Giacomo: le chiuse imposte del Sogno, la mano del finale di A Silvia, l'errar del tuono tra i crinali del Canto notturno, le rive scintillanti della Ginestra. D'altra parte, altrettanto di frequente ritornano - in forme sempre diverse - alcune tra le più celebri figure dei Canti, che siano umane (Silvia, Nerina, Aspasia), divine (le ninfe, le Erinni, Diana), animali (il passero, la greggia) o naturali (la luna, una nuvola che si dilegua e una foglia che cade). Ma nelle liriche dei quattro poeti l'influsso dei Canti non emerge solo in superficie. Il libro leopardiano agisce infatti nel profondo mediante un fitto, e a volte intricato, sostrato comune di topoi: la morte giovanile e innocente, il canto udito da lungi, lo stormire del vento, l'addio prematuro alla giovinezza, il ritorno al borgo natio, le favole antiche della Primavera, l'attesa vana del dì festivo, la fratellanza tra Amore e Morte e altro ancora. Accanto ai topoi, infine, vi sono i mitologemi. Su tutti, quello della fanciulla germoglio, la Silvia-Persefone: il vero fil rouge o, per riprendere una formula di Saba, il «filo d'oro» di queste pagine. È così che l'«onda trascorrente» dei Canti - stavolta l'immagine è sereniana - dà e trova nuova linfa nella poesia di quattro protagonisti assoluti del primo e secondo Novecento italiano.)
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