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recensioni di Rollo, A. L'Indice del 2000, n. 03
Il lavoro del cosiddetto critico militante, si sa, non è quello di canonizzare il presente, quanto piuttosto quello empirico di orientare, di saggiare la temperatura delle opere accostate, consapevole della presbite facoltà di giudizio che viene via via esercitando. Mario Barenghi, raccogliendo i prodotti della sua assidua collaborazione con periodici e quotidiani, si preoccupa di rammentare al lettore i limiti in cui si muove. E tuttavia, sia all'interno della mera valutazione di lettura (della recensione, insomma), sia nel modellare la propria visione della narrativa italiana dell'ultimo decennio, Barenghi domanda spazio, evoca scenari, sollecita tagli prospettici in una sorta di cauta ma acuta esplorazione del territorio e delle sue successive modificazioni.
E da questa esplorazione, a cui obbedisce la scansione in cinque sezioni, discendono alcune constatazioni e conseguenti spunti di riflessione. Innanzitutto la percezione di una fine secolo, necessariamente retrodata al 1989, che coincide con il progressivo spegnimento di voci significative, con la destrutturazione di un panorama apparentemente stabilizzato e, last but not least, con una strisciante vanificazione dei maestri. Questa orfanezza fa sì che, pur a fronte di alcune eredità nobilissime ma di difficile gestione (come Calvino o Elsa Morante), la narrativa italiana attraversi gli anni novanta affollatissima, declinando burrascosamente, all'interno di un paesaggio editoriale tanto ricettivo quanto disordinato, generose contaminazioni, consolidamenti, spaesamenti e nuove strategie mediatiche, baldanze solecistiche e gergali arroganze di nuovo conio. La Meisterdammerung ridefinisce anche lo status degli autori impostisi fra gli anni settanta e ottanta (anche quelli che sembravano suggerire un'identità collettiva come Tondelli, De Carlo, Busi), che vengono meno alla promessa di continuità implicita nei loro esordi nonché alle domande di rotture a cui, per molti versi, venivano obbedendo.
In questa scena laicizzata appare tanto più veritiera la brillante identificazione di una arcadia cannibale, pulp o - come giustamente insinua Barenghi - "neoscapigliata", molto preoccupata di "differenziarsi dai predecessori" e, essa sola, legittimata a sentirsi paladina del nuovo, in quanto serenamente priva di maestri ma ben disposta a scegliersi dei "numi tutelari" citatissimi in esergo ed esibiti nelle interviste.
Un secondo motivo di riflessione è quello relativo al sostanziale fallimento del romanzesco nella nuova narrativa italiana, malgrado speculari exempla di intenso commercio con la letteratura di intrattenimento (Fruttero & Lucentini e Umberto Eco) e una successiva convulsa frequentazione dei generi più diversi (il romanzo storico, il rosa, il nero, e soprattutto l'horror). "Sebbene il gusto del narrare - dice Barenghi - abbia conosciuto una notevole diffusione, l'impronta lirico-saggistica della nostra tradizione si avverte tutta, come uno stigma ereditario o un'aria di famiglia. A questo esito sono per altro legate anche le esperienze in quel genere comico-picaresco che, ben riconoscibile nel primo Celati e poi in Tondelli, sembra il tratto davvero persistente della più giovane scrittura italiana (Ballestra, Brizzi, Culicchia, Nove e anche il Paolo Nori non citato da Barenghi). La sollecitudine critica di Barenghi si muove tuttavia fra misurazione del territorio e una non meno severa ma più sciolta intercettazione di opere o autori capaci di lasciare tracce profonde e di scollinare i rilievi prodotti dal contesto. Fra le altre segnalazioni: l'eccezionalità del Sostiene Pereira di Tabucchi, il metallo brunito degli ultimi romanzi dell'Ortese, l'io "sanguinoso" di Michele Mari e il riconoscimento in extremis di uno dei più importanti romanzi del decennio, Nel corpo di Napoli di Giuseppe Montesano.
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