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OMERO, Odissea (canti e frammenti)
OMERO, Odissea
recensione di Boitani, P., L'Indice 1994, n.10
Tre "Odissea" in meno di dieci anni: anche questa è l'Italia del nostro ultimo scorcio di secolo. Nel 1986 finiva di uscire l'imponente edizione della Fondazione Valla, con la bella traduzione in versi liberi di G. Aurelio Privitera. Nel 1990, Giovanna Bemporad correggeva una versione in endecasillabi pubblicata dalla Eri nel 1968 e nel 1970, e la rivedeva poi per l'edizione del 1992. Infine, nel 1994, Maria Grazia Ciani ci offre una traduzione in prosa. È ben vero che l'ultima traduzione divenuta canonica, quella di Rosa Calzecchi Onesti, risale a più di trent'anni fa. Ma tre "Odissea" sono pur sempre tante, e credo che l'editoria italiana abbia, nel merito, un primato unico al mondo.
Cosa spinge gli editori a un investimento finanziario e culturale così impegnativo? E cosa motiva i traduttori (le traduttrici) a uno sforzo tanto rilevante, paziente, lungo nel tempo? Non c'è dubbio che la risposta alla prima domanda vada ricercata nel gusto del pubblico. Il pubblico gradisce l'"Odissea", la cerca, la compra, la legge. C'è un tipo di pubblico in Italia (non c'è in Germania, in Francia, in Spagna), colto ma non accademico, che prova un attrazione quasi istintiva per il secondo poema omerico (assai minore per il primo, l'"Iliade"); che sente, al solo menzionare Odisseo-Ulisse, un quieto tuffo al cuore. Certo, l'emozione sarà in parte dovuta alla presenza capillare di Ulisse nella cultura e nell'immaginario italiani, alla memorabile reinvenzione dantesca del personaggio, alla formazione umanistica che fino a non molto tempo fa le nostre scuole imponevano ai giovani. Ma perché l'"Odissea", e non, per l'appunto, l'"Iliade", o l'"Eneide"?
Perché, mi azzardo a proporre, l'"Odissea" incarna un sogno ben lontano dalla verità, ma capace di farsi sentire come l'unico che possa forse tradursi in realtà (non solo in Italia, ma forse qui in modo particolare). Il poema è infatti soprattutto - come Maria Grazia Ciani ed Elisa Avezzù sottolineano nell'illuminante discorso che intrecciano fra introduzione e commento - la storia di un ritorno e di un'attesa che durano ben vent'anni. Ritorno di Ulisse: tormentato da mille pericoli e mille deviazioni, messo alla prova da terribili seduzioni come quelle dell'oblio, della conoscenza e dell'immortalità promesse rispettivamente dai Lotofagi, dalle Sirene e da Calipso, eppure tenacemente perseguito con astuzia e fatica, a costo addirittura della propria identità (il Nessuno inventato per sfuggire a Polifemo, diviene realmente tale quando Odisseo approda, nudo e incrostato di sale, all'isola dei Feaci). Attesa di Penelope: assediata, corteggiata e "violentata" dagli uomini; terrorizzata dai sogni; impulsiva e dolente; ma anche forte, paziente, fedele, capace di discriminazione e di astuzia - un modello di femminilità non passiva, cuore, mente e sofferenze pari a quelle del marito. L'"Odissea" è dunque in primo luogo la storia del progressivo congiungersi di quel ritorno e di quell'attesa, la vicenda di una riunione e di un riconoscimento che, procrastinati per ventidue canti da invenzioni mostruose, commoventi, perturbanti, sublimi e odiose, preparati da riunioni e agnizioni in crescendo, rimandati da travestimenti e quasi-riconoscimenti, esplodono nel Libro XXIII. Quando, dopo l'uccisione dei Pretendenti e delle ancelle infedeli, la vecchia nutrice corre ad annunciare a Penelope che Ulisse è tornato, e lei balza dal letto, si ferma, poi decide di scendere, e i due si trovano seduti l'uno di fronte all'altra, e lei scruta il volto di lui, immobile, incerta incredula, fin quando lui non rivela il segreto del loro letto che lui stesso ha costruito nell'olivo e dall'olivo. E allora a lei si sciolgono le ginocchia e il cuore, gli corre incontro piangendo, gli getta le braccia al collo baciandogli il capo. Ed ecco, Ulisse e Penelope si fanno una cosa sola prima ancora di godere l'amore.
Rileggiamo il passo, nelle due traduzioni. La Bemporad, che con forza straordinaria fa scoppiare l'emozione dalle rotture e dalle riprese fra un verso e l'altro: "Come appare desiderata ai naufraghi la terra, / se spezzò Poseidone la loro agile / nave, al largo spingendola con l'impeto / delle onde e il vento; pochi dal canuto / mare a riva si salvano, nuotando, / grumi di sale incrostano le membra; / sfuggiti a morte, toccano la terra / con gioia: tanto a lei desiderato / lo sposo era, a guardarlo, e non staccava / più le candide braccia dal suo collo". La Ciani, con una prosa contente di profonda nostalgia: "Come ai naufraghi appare, desiderata, la terra, quando in mare il dio Poseidone distrugge la nave ben fatta, travolta dal vento e dalle onde violente: in pochi scamparono al mare bianco di schiuma nuotando verso la riva e, con il corpo incrostato di salso, lieti toccarono terra, sfuggendo alla morte. Così agognato appariva a lei il suo sposo, e dal suo collo non riusciva a staccare le candide braccia".
Penelope naufraga nelle braccia del naufrago per eccellenza, Ulisse, ma assieme essi giungono a riva, a casa. Non sono, questa riunione e questo riconoscimento, l'unica immagine terrena umana, palpabile, possibile di un compimento e di una completezza, di una conoscenza che nel momento migliore è riconoscimento e ri-conoscenza - insomma della felicità e della pace? Forse anche a noi, che torniamo a casa ogni giorno dal lavoro, dalla guerra, dalle traversie e dagli incantamenti della vita, sono dati, qui ed ora, quel compiersi e quel riconoscersi, quell'essere-assieme che pare quasi cosa divina ("riconoscere i cari" fa dire Euripide a Elena, "è un dio").
Eppure noi non torniamo mai a casa. Noi, lo sappiamo, andiamo altrove, a perderci, morendo, nel mondo delle ombre che Ulisse ha visitato: a divenire "soffi" e "aliti" fra i tanti "sogni" di esseri umani che ci hanno preceduto. Sì a casa ci attendono forse, se saremo pazienti, saggi, astuti, e aiutati dagli dei, Penelope, Telemaco, Laerte, Euriclea e tanti altri. Ma là, nell'Ade, c'è già nostra madre, Anticlea, che invano cerchiamo di riabbracciare. E verso quella notte s'avvia - mentre noi, distogliendo lo sguardo, ci asciughiamo una lacrima - il cane Argo: che pure, dopo vent'anni, ha rivisto e riconosciuto Ulisse.
L'"Odissea" ce lo ricorda, questo vuoto che mancherà sempre alla nostra compiutezza. Ma offre al nostro sognare di essa un'immagine così tangibilmente perfetta, così vicina alla nostra esperienza di uomini, da fermare all'estremo limite la lunga notte come fa Atena con l'alba che sta per irrompere sul pianto, sull'amore e sul sonno di Ulisse e Penelope: "trattenne sull'Oceano Aurora, / non lasciando che i rapidi cavalli, / messaggeri del giorno, ella aggiogasse: / Lampo e Fetonte, i fulgidi puledri / che portano la dea sul trono d'oro". E allora, perché stupirsi se, alle soglie del 2001, abbiamo tante Odissee?
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