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Dopo diverse settimane, assai a rilento, ho terminato Obabakoak di Atxaga. \nCredo che sia uno dei libri più belli che abbia mai letto.\nUn libro che è allo stesso tempo: un romanzo che assomma vari generi, dal romantico al giallo, allo storico al fantasy, una raccolta di racconti sequenziali come il gioco dell'oca e incasellati strategicamente come gli scacchi, un saggio sulla traduzione, sulla letteratura, sulla metaletteratura, un manifesto politico e culturale, un desiderio di patria - quella basca - e di lingua cancellata dal Potere.
Recensioni
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recensione di Manera, D., L'Indice 1991, n. 6
L'attenzione crescente che gli editori italiani mostrano da alcuni anni per le letterature iberiche ha permesso anche la pubblicazione di opere scritte nelle lingue dette minoritarie, co-ufficiali accanto al castigliano in alcune regioni autonome del regno di Spagna. Dopo i catalani Mercé Rodoreda, Llorenc Villalonga e Joan Perucho e i galeghi Alvaro Cunqueiro, Alfredo Conde e Carlos Casares, arriva ora in libreria il basco Bernardo Atxaga (pseudonimo di Joseba Irazu Garmendia, classe 1951). È un caso francamente raro, non solo perché l'unico altro libro basco tradotto da noi è il romanzo di Ram¢n Saizarbitoria "Cento metri" (Ed. Memoranda, Massa 1985). Il fenomeno Atxaga sorprende e affascina per la particolarissima vicenda dell'autore, e della lingua in cui scrive.
Il basco, o 'euskara', è la più solitaria tra le lingue appartate del vecchio continente: non è infatti indoeuropea ed è priva di parentele accertate. Nonostante i prestiti latini e romanzi e i neologismi che ha in comune con altre favelle, risulta impenetrabile anche per i poliglotti. Un musicista, per spiegarsi, mi disse che gli sembrava stesse al contiguo spagnolo come la dodecafonia al clavicembalo ben temperato. È parlata attualmente da circa mezzo milione di persone che vivono nell'angolo del golfo di Biscaglia, tra Spagna e Francia, e la sua importanza per la definizione etnico-culturale di tale popolo è decisiva, come prova la derivazione del nome del paese ('Euskal Herria', cioè "patria della lingua basca") e di quello degli abitanti ('euskaldunak', letteralmente "possessori della lingua basca"). La frammentazione dialettale, marcata come in ogni territorio montuoso, è stata superata solo recentemente con la creazione di una lingua unificata, l''euskara batua', che si deve all'Accademia della lingua basca e soprattutto al lavoro ciclopico del linguista Luis Michelena.
Quanto alle lettere basche, esse non hanno alle loro spalle una remota età aurea, come l'irlandese o il provenzale. Il primo libro a stampa (una raccolta di liriche religiose e amorose del parroco Bernard Dechepare) compare nel 1545 a Bordeaux. Una certa fioritura si ha nel secolo seguente, sempre sul versante francese, dove nasce la prosa ad opera di Pedro de Axular, autore del trattato di morale e ascetica "Gero" ("Dopo", 1643). Poi è quasi silenzio fino agli ultimi decenni del secolo scorso, in cui si rinnova la tradizione dei bardi popolari, i 'bertsolariak', e prende forma, con Sabino Arana Goiri, il nazionalismo basco, che fornirà base e impulso al recupero di prestigio della lingua. Nel nostro secolo, quando la poesia comincia a raggiungere livelli qualitativamente considerevoli con Orixe e Lizardi, la mazzata della guerra civile e della conseguente repressione centralista della dittatura spegne di nuovo ogni fiammella. Solo negli anni sessanta comincia una rinascita attorno al poeta Gabriel Aresti, che nel 1972 include in un'antologia lo scritto d'esordio del giovanissimo Atxaga.
In seguito, dimenticando gli studi d'economia e leggendo praticamente tutto quanto la tradizione letteraria basca gli aveva lasciato (il corpus è così ridotto che ciò è possibile), Atxaga si è dedicato interamente alla creazione, scrivendo versi (in Spagna è appena uscita una bella antologia col titolo "Poesie & Ibridi"), testi per canzoni e rappresentazioni sceniche (tra cui "Henry Bengoa Inventarium", che si può leggere in "Linea d'Ombra", n. 55, dicembre 1990), lavori teatrali, libri per bambini, il romanzo "Due fratelli", ma soprattutto i migliori racconti mai composti in euskara.
La narrativa basca, infatti, rimasta a lungo relegata a tematiche folcloriche locali con esiti di scarso rilievo (Mogel, Etxeita, Aguirre), aveva ripreso vigore negli anni sessanta con la prosa urbana di Txillardegi e nel decennio seguente con la scrittura innovativa del già ricordato Saizarbitoria. Mancava però una personalità capace di forgiare un universo narrativo autonomo, che prescindesse dai topici tematici come dalla devozione più o meno militante nei confronti della lingua in sé. È quello che Atxaga presenta nel volume "Obabakoak" (parola paragonabile a un neutro plurale latino, che si può tradurre "le cose di Obaba", essendo, in soldoni, il suffisso '-ko' un genitivo di luogo, '-a' il marcante dell'articolo e '-k' il marcante del plurale).
"Obababoak" raccoglie in tre sezioni testi di vari anni, collegati da un progetto che si va definendo man mano, con l'aiuto del lettore, e testimonia le voci o timbri fondamentali dell'autore. Innanzitutto c'è lo spazio mitico di Obaba, riconducibile al Paese Basco rurale, che somiglia un po' al paesino guipuzcoano di Asteasu dove Atxaga è nato e vive. Non sorprende quindi il tono da racconto orale popolare e la presenza dai contorni favolistici del regno animale. A Obaba si contrappone una sfumata e convenzionale Amburgo, simbolo dell'esterno e della "civiltà", più ancora che dell'ambiente urbano. Le storie che ruotano attorno a questi ambienti hanno un andamento epico, in terza persona. Viene poi l'anodino borgo castigliano di Villamediana, e qui il narratore compare in prima persona, ma resta in disparte e il ritmo si fa pacato, descrittivo, mentale. Infine arriviamo alla terza sezione, la più corposa, dove il narratore è personaggio a tutti gli effetti e accanto a Obaba e Amburgo trovano posto luoghi ed epoche lontani, perché il motivo conduttore comporta una teoria del racconto e fa da cornice a una serie di esempi.
Ma a dare unità profonda a questo molteplice innesto di generi è la visione della vita che i racconti illustrano attraverso simbologie ricorrenti e traiettorie affini: uno sguardo che ama soffermarsi sulla solitudine e la fatalità, attraverso personaggi marginali e fuori norma, colti nel preciso istante in cui tutti i nodi che li riguardano vengono al pettine. Ecco quindi Esteban Werfell, che scopre da adulto il trucco con cui il padre gli ha segnato l'esistenza allontanandolo da Obaba. Ecco la maestrina che per un disguido postale si sente così abbandonata il giorno del suo compleanno da commettere l'errore di invitare a casa un garzone montanaro suo alunno. Ecco un selvatico trovatello che, trasformatosi in cinghiale bianco, si vendica dei maltrattamenti subiti in paese e viene finito a pietrate dall'inorridito canonico che sa di essere suo padre. Ecco il pittore Hans Menscher che in un giardino di Amburgo dipinge con tanta intensità Mediterraneo e Oriente da finire accoltellato in Arabia dai familiari dell'amante Nabilah. Ecco il fattorino di panetteria Klaus Hanhn che non riesce a godersi il malloppo di un'estorsione perché tormentato dal fratellino che uccise da ragazzo e di cui continua a sentire la voce. Ecco il giovanissimo mercenario medievale che, perduto con l'amico del cuore l'unico affetto, decide di seguirlo sotto gli zoccoli dei cavalli. Ecco l'alpinista che, tradito dalla moglie con un compagno di spedizione, lo ripaga lasciandolo gelare in un crepaccio. Ecco ancora il nano poeta fallito e lo scienziato che diventa stregone in Amazzonia e tanti altri, fino al narratore stesso, alle prese coi ramarri che istupidiscono le persone infilandosi nelle teste.
Ma, paradossalmente, queste storie non trasmettono angoscia, perché il racconto riesce comunque a riscattare dalla probabile impotenza di fronte al destino e dall'incertezza sulla tenuta dei rapporti umani. La gioia di una lettura così gratificante, coi suoi immaginosi meccanismi di sorpresa perfettamente congegnati e quel dire sereno, che ti accompagna come un anfitrione simpatico intento a mostrarti garbatamente le stanze di casa, rendono i personaggi di Atxaga non già degli sconfitti, ma plausibili e persino rinfrancanti portatori di senso in un contesto vieppiù cruentemente frivolo. Così la letteratura sa davvero farsi prezioso esercizio di riflessione.
Anche sul piano stilistico la varietà è relativa, perché l'autore e i suoi narratori in fondo concordano nell'avversione per il linguaggio smodatamente gonfiato e rifuggono da abbandoni lirici, barocchismi, sperimentalismi. Cercano un narrare limpido e classico, che restituisca il piacere di leggere seguendo l'esempio dei maestri del XIX secolo, più volte citati: Schwob, Cechov, Balzac, Dickens, Tolstoj ecc., con la loro allegra abbondanza. Nel provocatorio brano "Metodo per plagiare", compare il seicentesco Pedro de Axular, già citato, che tratteggia senza riguardi gli intellettuali baschi ipocriti, chiacchieroni, profittatori, rissosi, servili cortigiani oppure piagnucoloni, proponendo invece un'umile, ma abile imitazione degli ammirati classici d'altre letterature, per riempire d'alberi la brulla isola di quella basca. Perché gli uomini dimenticano le belle storie già scritte, e ai nuovi scrittori spetta il compito di ricordargliele.
Atxaga riesce invero a fare molto di più, con una sorta d'invidiabile tenerezza. L'incanto di "Obabakoak" dimostra quanto può regalarci, nelle mani giuste, anche una sperduta, antichissima lingua più volte minacciata d'estinzione.
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