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recensione di Rorty, R., L'Indice 1995, n. 1
Richard Bernstein è forse il principale rappresentante americano della tradizione filosofica inaugurata da John Dewey: la tradizione che Bernstein stesso caratterizza come "pluralismo fallibilistico impegnato". Come Dewey, Bernstein è sempre stato impegnato politicamente, per tutta la sua carriera. Era tra i professori e gli studenti che partirono per il Mississippi nella storica estate che è celebrata nel film "Mississippi Burning": l'estate durante la quale molti rischiarono la vita per sostenere il movimento dei diritti civili, e in particolare il tentativo degli afro-americani di farsi registrare come elettori. Come Dewey e Rawls, Bernstein si preoccupa di insistere che una comunità democratica non ha bisogno di consenso sulle questioni religiose e metafisiche, ma soltanto del consenso sul valore della conversazione e dei rapporti civili tra persone. Come per Peirce e Dewey, il suo motto filosofico è "Non mettere ostacoli sulla strada della ricerca": cioè, non trattare nessuna tesi o sistema o vocabolario filosofico come se fosse qualcosa di più di uno strumento che può essere utile in un certo tempo e luogo. Da pragmatista, Bernstein non ritiene che le istituzioni democratiche abbiano bisogno di "fondamenti filosofici". D'altra parte egli pensa, come Habermas, che la competenza filosofica possa avere una funzione politica: che possa servire a ridescrivere in modo illuminante i nostri attuali problemi socio-politici, come fecero a suo tempo Marx, Weber e Dewey, e come fa ora lo stesso Habermas. Il nuovo volume di saggi di Bernstein consente a un lettore europeo di vedere che impressione fa a un pragmatista americano la recente filosofia francese e tedesca. L'argomento principale di questi saggi è lo stesso del "Discorso filosofico della modernità" di Habermas: la tensione tra l'aspetto "estetizzante" del pensiero francese recente e i problemi morali e politici. Habermas aveva accusato Derrida e Foucault di irresponsabilità, per aver messo da parte quei problemi. Anche Bernstein protesta contro l'uso dell'antiumanesimo come slogan da parte di Foucault e Derrida (tra gli altri). Egli si oppone a ogni tentativo di eludere la 'praxis' - il problema concreto di che fare in un dato luogo a un dato momento - volgendosi all'Essere, al Linguaggio o al Potere.
Tuttavia, in Bernstein la discussione di Foucault e Derrida è più avvertita e paziente che in Habermas. In uno dei più bei saggi di questo volume - "Il gioco serio: l'orizzonte etico-politico di Derrida" - Bernstein propone una lettura molto sensibile e perspicua dell'opera di Derrida: egli fa vedere in dettaglio come la stravaganza, apparentemente autoindulgente, della prosa di Derrida mascheri un'intensa preoccupazione per la sofferenza umana, e una speranza nella libertà umana. Qui, come nei saggi su Foucault e Heidegger, Bernstein dà prova di una notevole capacità di mettersi nei panni degli autori su cui scrive, e di criticarli solo dopo aver compreso fino in fondo le loro motivazioni. Bernstein non è mai condiscendente n‚ stroncatorio: anche quando ha a che fare con un filosofo di cui intensamente diffida, coma Heidegger, lo tratta con cortesia e rispetto. Bernstein ha fatto molto per aiutare i lettori anglofoni ad accedere al recente pensiero filosofico tedesco e francese. Il lettore italiano di questi saggi troverà utile osservare l'interazione tra il pragmatismo americano e il cosiddetto "pensiero postmoderno". Le somiglianze sono impressionanti, particolarmente nella critica di Platone e Kant. Ma le differenze - specialmente per quanto riguarda la relazione della politica con la prassi - sono più interessanti ancora.
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