"Era il 4 novembre 1937, quando arrivammo a Buchenwald. Rispetto agli altri mi sentivo un po' superiore, visto che nel 1933 ero già stato in due campi di concentramento (Colditz e Sachsenburg). Insomma, Buchenwald per me non sarebbe stato niente di nuovo. Quella sensazione di superiorità, però, svanì molto presto". Così inizia il primo dei sei resoconti di Bruno Apitz (prigioniero n. 2417) scritti all'indomani della liberazione del campo di concentramento di Buchenwald l'11 aprile 1945 e pubblicati adesso nell'appendice alla nuova edizione italiana del romanzo Nudo tra i lupi, da considerarsi integrale in quanto arricchita di parti espunte dall'autore nella prima versione del 1958. Apitz (Lipsia 1900 - Berlino/Ddr 1979), operaio, membro della Arbeiterjugend, arrestato già a diciassette anni per propaganda contro la guerra, fu internato a Buchenwald per otto anni e la sua detenzione coincise, tranne che per quattro mesi, con l'intera esistenza del Lager. Durante la tragica esperienza di detenuto politico scrisse nel 1944 il racconto Esther, storia dell'amore fra un'internata e un kapò, uno dei rari esempi di letteratura nata nei campi di concentramento, ma la testimonianza più cruda e straziante è il romanzo Nudo fra i lupi, edito appunto nel 1958 da Aufbau-Verlag e all'Ovest nel 1961 da Rowohlt, con un conseguente grande scandalo nella Repubblica federale. Tradotto in ventotto lingue, in italiano esce da Baldini e Castoldi nel 1961. Con una tiratura di due milioni di copie, all'inizio degli anni settanta è il primo bestseller della letteratura della Rdt, da cui nel 1963 fu tratto un film di enorme successo per la regia di Frank Beyer, nel quale l'autore era sceneggiatore e attore. Il romanzo che Apitz, in quegli anni drammaturgo alla Defa (l'ente statale che gestiva l'industria cinematografica della Germania Est), aveva rielaborato già nel 1960 come dramma radiofonico, è uno dei primi testi di narrativa concentrazionaria, preceduto dai romanzi La settima croce (1942) di Anna Seghers, con il film omonimo di Fred Zinnemann del 1944, e La selva dei morti (1946) di Ernst Wiechert, anch'egli internato a Buchenwald. Nel romanzo si narra la vicenda realmente accaduta, comune ad altre centinaia di bambini e ragazzi fra i quali il premio Nobel Elie Wiesel, del piccolo Stephan Cyliak (il suo vero nome è Stefan Jerzy Zweig e sarà rintracciato nel 1964) che con un convoglio di detenuti arriva da Auschwitz, liberato dai sovietici il 27 gennaio 1945, a Buchenwald nascosto in una valigia trascinata dall'ebreo polacco Jankowski. Höfel e Pippig, due internati utilizzati nel deposito degli effetti personali tolti ai prigionieri, scoprono il bambino e, mettendo a rischio la propria vita, lo nascondono nel magazzino vestiario. Per salvarlo comincia una strenua lotta che coinvolge direttamente componenti del gruppo della resistenza interna al campo. Apitz descrive capillarmente l'attività illegale dello "Internationales Lagerkomitee" (Ilk), "l'avanguardia di un mondo giusto", composto da sei comunisti di diversa nazionalità che puntano alla liberazione dei prigionieri prima che si passi alla soluzione finale della Liquidierung. Le strategie di protezione del bambino, il cambio di nascondiglio per sottrarlo al trasferimento nel campo di sterminio di Bergen-Belsen, animano la dialettica conflittuale fra i destini del singolo e quelli della comunità calati nelle atroci dinamiche materiali e morali del Lager. L'epicità tragica del romanzo, che nella coralità e nelle pieghe dell'individualità rivela i meccanismi del complesso e perverso rapporto carnefice-vittima, si dilata nella rappresentazione delle aberranti, tortuose relazioni gerarchiche fra i quadri e i gradi delle SS, dei conflitti, le meschinità e le brutalità degli aguzzini, delle relazioni problematiche e ricche di implicazioni dei capisquadra che spesso, come l'autore, sono i detenuti politici più anziani. L'esercizio della loro funzione nevralgica, da un lato nell'assicurare infrastrutture e modalità organizzative della resistenza, dall'altro nello svolgere compiti di raccordo, controllo e assistenza per gli altri prigionieri, in una fragile e rischiosa posizione mediana nei confronti delle SS, diviene il fulcro della torturante quanto monotona routine nel Lager. Con un solido impianto documentario e un lineare decorso cronachistico, che permettono di rivisualizzare l'immensa, lugubre topografia dei baraccamenti, delle postazioni e dei reticolati di Buchenwald con i suoi 50.000 prigionieri, si documenta la vita come viatico di morte nel Lager, dove le ossessive ritualità imposte dagli aguzzini, la violenza dei lupi sulle nudità di corpi offesi non riescono comunque a cancellare la volontà di sopravvivenza e sprazzi di solidarietà. Nodo centrale, ancor più accentuato nell'edizione integrale, è il dilemma da sciogliere fra l'osservanza a ogni costo della disciplina di partito che mira alla liberazione di tutti e il sentimento di pietà per un bambino che potrebbe compromettere l'intera operazione. Apitz, che ricorda il sacrificio di Ernst Thälmann, presidente della KPD (partito comunista tedesco) ucciso nell'agosto 1944, e assegna al detenuto più anziano il nome di Walter Krämer, omaggio al chirurgo comunista salvatore di tante vite e assassinato dalle SS nel 1941, compie un'articolata radiografia dell'eterogeneo gruppo dei prigionieri politici sottolineando che "i compagni raccolti nello Ilk dovettero superare molte difficoltà per vedere dei compagni nei prigionieri tedeschi". Nella ricostruzione storica di Apitz risulta fondamentale l'azione della resistenza interna che, di fronte al lento avanzare da ovest degli Alleati, adotta una "tattica della dilazione e della resistenza passiva" allo scopo di ritardare l'evacuazione e l'organizzazione dei "trasporti di morte", nascondere la presenza del bambino, perché le SS, a seguito di una denuncia anonima, sono convinte che "se prendiamo il bambino, abbiamo in mano il partito", e far scoppiare la rivolta appena avvenuta la fuga della Lagerführung. Non sempre vivere sulla propria pelle un'esperienza tragica, trasponendola in un romanzo e in un film, è garanzia di una completa conoscenza del reale svolgimento dei fatti. Con l'accesso ad archivi e con ricerche ulteriori si è accertato che probabilmente il bambino fu salvato grazie a uno scambio sul treno per Bergen-Belsen con un piccolo rom. Nella realtà il piccolo Stefan Jerzy Zweig arrivò a Buchenwald con il padre Zacharias, la madre Helena e la sorella Sylwia provenendo dal ghetto di Cracovia e passando per i campi di concentramento di Biezanow, Skarzysko-Kamienna e Plaszow. La madre e la sorella furono deportate da Buchenwald ad Auschwitz dove furono gasate. Dopo la guerra padre e figlio, ormai noto come "Das Buchenwald-Kind", si trasferirono in Israele. In seguito al successo del romanzo Jerzy si stabilì nella Rdt mantenendo la cittadinanza israeliana, per poi, nel 1972, andare a vivere a Vienna. Il resto sono storia e polemiche recenti. Nel 2005, in occasione del sessantesimo anniversario della liberazione del KZ Buchenwald, Stefan Jerzy Zweig pubblica, con una postfazione di Elfriede Jelinek, Tränen allein genügen nicht. Eine Biographie und ein wenig mehr la cui prima parte consiste in documentazione raccolta dal padre Zacharias. Il libro vuole essere una risposta forte alla decisione della direzione della Gedenkstätte di Buchenwald di equiparare le "vittime del fascismo" alle "vittime dello stalinismo" che dopo il 1945 furono internate in quello stesso campo, gran parte delle quali erano criminali di guerra. A Buchenwald in Turingia, un bosco di faggi sullo Ettersberg sopra Weimar, cuore del classicismo e della prima repubblica tedesca, quanto più la storia si affina tanto più sembra che la sua lettura si intorbidi. L'urlo liberatorio del piccolo Stephan che, tenendo per mano il padre Zacharias, si abbandona nella corsa collettiva alla libertà conquistata, resta invece un fatto certo e continua a risuonare come monito di fronte a ogni revisionismo e sollecitazione a una memoria autentica. Fabrizio Cambi
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