"Guido Pistocchi aveva letto L'Aleph di Borges. E ovviamente si era convinto di aver trovato nella parola "morte" una sorta di quintessenza spirituale, di sigillo, di porta (
) che nell'iterazione ossessiva di un lemma potesse darsi una qualche forma di conoscenza ultraterrena, o comunque estrinsecarsi un barbaglio di mistero". C'è poco dell'orrore e del grottesco quotidiani in questi racconti, brevi e smisurati al tempo stesso, che sin dal titolo vogliono strizzare l'occhio a Edgar Allan Poe. Tuttavia ciò che conservano del genio americano, a parte i soggetti e la visionarietà febbrile, è un certo maledettismo esasperato (come se un Poe meno acuto e riflessivo si fosse deciso a lasciarsi andare all'assunzione di sostanze psicotrope). Ne vengono fuori storie surreali e fantastiche, i cui personaggi, spesso vittime di loro stessi, delle proprie passioni e della propria ferocia, si muovono disinvoltamente nello spazio del racconto tra vizi assurdi e perversioni. Un campionario di storie di menti alienate, di uomini e donne ritratti nell'istante di accedere al momento estremo di una rivelazione, declinata nella forma radicale della morte e ancor più in quella ripugnante della follia. E il cui riscatto dalla condizione di miseria avviene solo con la parola fine. Ogni forma di oscenità e di orrore preumano sono sondati con una "caratteristica mercuriale", vivace ed eccessiva, dall'autore. I toni sono infatti quelli dello splatter e di una ironia cinica che serve a distanziare la voce dal racconto. La scrittura è disomogenea per scelta, eppure paradossalmente risiede in essa il gradiente di godibilità del libro. Cusa, che è soprattutto un musicista jazz, ha scelto la forma narrativa, con le sue leggi e i suoi codici, come uno spazio in cui operare una personalissima sperimentazione, un'improvvisazione solitaria e disturbante. Lo stile a tratti baroccheggiante si strema a volte in un lirismo dadaista. I testi diventano così dei pezzi naif e selvaggi, dall'andamento sbilenco e zoppicante, come improvvisazioni musicali, vivi di una scompostezza stilistica che corrode la struttura del racconto o tende il filo della trama senza paura di spezzarlo, o di farlo eccedere. "La mia gola è un'immensa cascata nera di bianco", ci rassicura l'autore. Alfredo Nicotra
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