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recensione di Bonfatti, E., L'Indice 1994, n. 3
Vengono qui riproposti in traduzione, con testo originale a fronte, quaranta dei cento sonetti che Andreas Gryphius (1616-64) ha composto in massima parte durante la sua giovinezza e via via rielaborato e dato alle stampe dal 1637 al 1663. Data la destinazione di questa piccola raccolta e la sua unicità nel panorama delle traduzioni italiane (con l'eccezione dei sonetti raccolti in "Poeti religiosi tedeschi del Seicento", a cura di Sergio Lupi [1963]), Enrico De Angelis vi ha incluso i componimenti più famosi nella loro ultima stesura del 1663: "Tutto è vanità", "Miseria umana" "Lacrime della patria. Anno 1636", "Alle stelle", poesie che nel nostro secolo, e al di fuori dell'ambito accademico, hanno tenuto desta la notorietà di un autore solitamente poco letto. Si pensi alla ricomparsa di "Lacrime della patria. Anno 1636" nel n. 577-82 (novembre 1921) della "Fackel", dove si ricorda anche la pubblica lettura tenuta da Karl Kraus nell'ottobre precedente. In effetti gli orrori delle due guerre mondiali hanno favorito il contatto con versi in cui la meditazione sulle rovine della guerra dei trent'anni s'intreccia ai temi più caratteristici del 'contemptus mundi' cristiano. Basta leggere la pagina di "Kaukasische Aufzeichnungen* di Ernst Jünger (24 ottobre 1942) in cui la città distrutta evoca un paesaggio di rovine popolato da greggi non dissimile da quello della prima quartina di "Tutto è vanità". A un repertorio pressoché obbligato De Angelis, che firma la traduzione insieme a Liliana Cutino, ha aggiunto un ventaglio molto rappresentativo di altri sonetti, ad esempio i quattro, bellissimi, relativi alle quattro parti del giorno posti all'inizio del "Libro secondo" (1650), e alcuni di contenuto occasionale o satirico nei quali la meditazione sulla morte è assente e il 'contemptus mundi' si stempera o scompare. Sono rimasti invece del tutto esclusi sia i sonetti relativi al calendario liturgico protestante (1639), sia quelli apparsi postumi nel 1698. Che si prenda il Gryphius dell'alto pathos religioso e delle visioni apocalittiche oppure quello di poco più sommesso del gioco epigrammatico e satirico, resta l'impresa difficile di tradurre una lingua poetica che già i contemporanei avevano più ammirato che amato o assimilato a fondo e la cui unicità viene potenziata dai ritmi forti del sonetto in versi alessandrini. Escluso l'impiego di ogni tipo di metrica, emerge qualche episodica reminiscenza di tradizione poetica italiana.
È assai apprezzabile la resa di "Nascita di Gesù" (I, 1), "A Calliroe" (I, 41), "Mezzodì" (II, 2 tranne però l'ultimo verso), una resa ben più convincente di quella di "Quando partì da Roma" (II, 41), "La Morte" (II, 46) o anche di "Alle Stelle" (I, 36), dove l'insistenza dell'anafora e la correlazione concettosa tra primo e ultimo verso non trovano il debito risalto. Forse qua e là sarebbe stato meglio conservare una versione più aderente al testo, che imitasse di più l'elaborata intelaiatura del sonetto. È possibile, oggi, una lettura di Gryphius che tenga conto del suo "rapporto solitario con il nulla", anche se questo stesso rapporto si è dovuto dare norme e convenzioni ineludibili? È il problema che De Angelis suscita nelle pagine introduttive partendo dalla considerazione secondo cui il nostro autore è sì oggetto di "ricerche dal sicuro valore", le quali però non servono ad abbattere una certa freddezza che si ha nei suoi confronti. Scartata ogni soluzione storicistica, le cause di un tale misto di "attrazione e imbarazzo" sono individuate nel duplice rapporto di vicinanza e lontananza che ci legherebbe alla poesia di Gryphius: di vicinanza, perché la cultura statica sua e del barocco, per quanto perdente dopo l'illuminismo, non è del tutto estranea ai dissidi della nostra cultura; ma anche di lontananza, perché i modi in cui anche solo la lirica si esprime appartengono a un sistema di convenzioni a noi ormai estraneo. Con "invecchiamento del permanente" s'intende appunto il dilemma che pone Gryphius visto come un tutt'uno con il barocco, dilemma sul quale De Angelis scrive pagine molto dense. In tal modo, certo, trova risposta solo la prima parte della domanda iniziale, da dove nasca cioè il misto di "attrazione e imbarazzo" che Gryphius suscita, mentre la seconda parte, più operativa (come superare questo dilemma), sembra restare in sospeso o al massimo prospettare come soluzione ciò che con l'opera integrale di Gryphius in realtà è già avvenuto nel nostro secolo, al di fuori della cultura accademica e storicistica: la sua drastica riduzione alla lirica, segnatamente ad alcuni sonetti magistrali. Davvero sembra che la fortuna di questo "classico" debba continuare a essere riposta non nel tutto ma solo nella parte.
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