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Dopo aver letto vari suo romanzi, questo è l'unico che non mi ha lasciato il segno; l'ho trovato lento, poco avvincente insomma un testo a mio modesto modo noioso. Sicuramente il meno riuscito della saga.
Debbo dire che questo terzo capitolo della trilogia di Pagan, iniziata con "Dead end blues" e proseguita con "Quelli che restano", mi ha parzialmente deluso. Mantiene, è vero, tutte le caratteristiche di grande disillusione e disincanto nei confronti della vita, col corollario di cinismo e scetticismo verso l'affannarsi da formiche impazzite della specie umana, verso qualcosa di assolutamente vano, essendo pacifica la fine d'ognuno a prescindere. La musica lenisce la depressione e il rotolamento giù per la china della vita di Chess, il protagonista: il blues che sempre lascia girare sul piatto ne scandisce i momenti in cui si affranca dal lavoro notturno, dalla sua "Fortezza Bastiani", luogo di scivolamento in una sorta di dimensione onirica, assieme a colleghi del pari resi apatici da un ambiente straniante e privo di altro che comportamenti routinari. Corruzione come modus operandi, cialtronaggine, arrivismi puerili, e i cosiddetti "piani alti" ormai a distanza ben più siderale che quella meramente fisica dal protagonista: Chess è stato sconfitto dalla vita, e più non s'affanna a indagare sui perché, ne accetta il lento dipanarsi, anche passando attraverso grotteschi dialoghi fatti di domande senza risposta, perché non ce ne sono o sono al di là della capacità di essere anche solo accettabili. Se per una buona metà il romanzo è, lui si, accettabile, anche ampiamente, ecco che poi inizia a disperdersi e disgregarsi come la personalità del protagonista. S'incaponisce, l'autore, a volerci trasmettere appieno il tormento interiore di Chess, che però non lo rode più, perché se ne sente oltre; ci mette a parte del suo rapporto con Alex, la donna del titolo, che viene lasciata e ripresa più volte senza un vero perché, ma che sperimenta su di sé (e sulla pazienza del lettore) le sue continue fughe da tutto, l'ostinato ritrarsi, la rinuncia e la fuga dalla scelta migliore, perché lui si sente "infetto", una contaminazione di malumore e degrado che nulla porta di buono. Talmente lo reitera che finisce per abusarne!
Recensioni
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Lo snodo della trama del romanzo è costituito dalla misteriosa morte di un influente senatore, cui fanno da sfondo l'intervento di servizi segreti, loschi intrighi politici e la diffusa corruzione della polizia. Ma il lettore non si lasci ingannare dalla facile esca, né tanto meno da un risvolto di copertina allettante quanto fuorviante. Perché se da tempo ormai tanta letteratura gialla e nera, più o meno da Hammett in poi, ci ha mostrato come la soluzione del delitto non chiuda affatto il cerchio, non ristabilisca l'ordine turbato né sciolga le inquietudini, qui addirittura è il delitto stesso a rimanere indifferente, a divenire elemento sempre più marginale, secondario al confronto di una irreversibile e generale perdita di speranza e di senso. A riempire le pagine di La notte che ho lasciato Alex, conclusione di una trilogia comprendente Dead End Blues e Quelli che restano, è infatti la presa d'atto dell'irrimediabile impossibilità di eliminare il male dal mondo e, soprattutto, da se stessi. Una presa d'atto raccontata attraverso la deriva psicologica dell'io narrante, un personaggio senza nome, poliziotto incorruttibile e sradicato, in fuga dagli stritolanti ingranaggi della routine e della normalità e perciò autoemarginatosi nel non-mondo del turno di notte. Non dunque di un vero e proprio giallo si tratta, ma del racconto in soggettiva di una fuga fisica e psicologica che non concede nulla a un'etica redentrice né all'apertura verso dimensioni di riscatto collettivo. Un noir nichilista quindi, impreziosito da abbondanti prestiti e ricercate citazioni dalla migliore letteratura gialla e nera.
Alessio Gagliardi
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