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recensione di Ravera, L., L'Indice 1996, n. 5
Erano pagine settimanali di riflessione (il venerdì sul "manifesto"); diventano, nel più duraturo oggetto libro, il ritratto di una fase, il film del biennio della confusione, un romanzo beffardo che getta, senza pietà, sotto i riflettori di un'aggettivazione precisa e talvolta crudele, protagonisti e comprimari, coro e solisti, "plebe" e condottieri.
Ci sono tutti: Berlusconi e Bertinotti, Rosy Bindi e Martinazzoli, Romiti e Fini, la barbarie leghista, Ingrao e D'Alema, la televisione e il popolo ridotto a far esperienze della vita guardandola seduto davanti al video, come in attesa.C'è l'Italia che vota a destra e c'è la mostra di Sironi, un film di Ken Loach e la lettera di un compagno del sindacato, c'è la Libreria delle Donne e c'è "la Rai di Moratti che fa spavento", c'è la mondializzazione, c'è il mercato inteso "non come regolatore dello scambio, ma come regolatore dei valori, principio dell'etica pubblica", c'è la fine dei partiti e la realtà virtuale ("È una cauta esperienza, più prudente del gioco... ti libera dall'altro nella sua corporeità, cioè dall'altro in assoluto, mica saremo spiritualisti?"), ma soprattutto c'è un punto di vista.
Antologie di osservazioni, descrizioni e analisi, i giornalisti ne producono una certa quantità. S'è creato un genere, una merce, "il giornalismo". Nelle migliori occasioni si può ricostruire, dalla lettura, l'identità della cosa narrata, per esempio la mafia, o il Sud, o il tal politico. Raramente, quasi mai o proprio mai, si ha la possibilità di intravedere anche i lineamenti di chi guarda, racconta, descrive, analizza, chiosa.
Non così "Note a margine".Senza un attimo di manifesta impudicizia o narcisismo, Rossana Rossanda è presente in ogni riga del suo libro, passeggia seria e ironica per le pagine, qui stuzzica, lì tuona o si trattiene dal tuonare, con effetti di elegante severità. Nessun vaticinio è a vanvera.
Ancorata al giorno per giorno per militanza professionale, Rossanda non si nega mai il piacere della profondità: dietro ogni presente c'è sempre un passato. Il futuro, immaginari sviluppi, evoluzioni o involuzioni, catastrofi minacciate o sperate palingenesi, diventa effetto collaterale inevitabile dell'esercizio di decifrazione dell'oggi. Si è coinvolti dal pathos della voglia di capire, poi travolti dalla rapidità con cui ogni elemento viene messo in relazione con un numero crescente di altri elementi e infine, sottoposto all'allegro calore, la vampata di luce, il velo di confusione si lacera e per un attimo sembra tutto chiaro.
Un saggio? Eccolo, scelgo a caso tra le molte righe sottolineate: "Tutti costoro si difendono dicendo che la tv non fa che riflettere l'odierna realtà.Ma andiamo. E come potrebbe? La tv, come i giornali, ne sceglie pochi sprazzi e li illumina, sprofondando tutto il resto nel buio. È un teatro, perché vergognarsene? Si risponda del testo e della messa in scena". Nell'ultima frase sale il tono, si fa secco, definitivo, la voce si impenna, il ritmo rallenta.Il lettore si guarda le spalle. Dov'è il colpevole? Oh, è una bellissima sensazione. Il rigore è la forma stilistica prescelta, l'ironia lo contrappunta, alleggerisce. La compassione ha il sapore della conquista recente. "È curioso: da quando si doveva scoprire di nuovo la persona, che sarebbe stata sepolta dalle ideologie, la persona si è perduta subito, come se, fuori da un contesto, fosse invivibilmente fragile".
Così, anche il ragazzo che tira fuori il coltello per tifoseria è compreso invece di essere giudicato: vanno alla partita per essere, magari ci andassero per divertirsi, vorrebbe dire che hanno una vita strutturata.L'intelligenza quando è praticata con questa continuità, giorno dopo giorno, per mezzo secolo, diventa generosa, aiuta a vivere.
Scrive Rossanda: "Incertezza, che passione.Che malinconia.Grande mi sembra l'inquietudine, per l'insepolto bisogno di interpretazione e la paura di strumenti insufficienti, approssimativi, slabbrati.Ma come si verificano gli attrezzi se non in una ipotesi di lavoro?". Già, l'ipotesi di lavoro.Da queste pagine non si evince una nostalgia del comunismo (sul tema comunque è divertente un rilievo: "L'orizzonte del comunismo è superato perché s'è dimostrato un errore politico e strategico. Chi si sognerebbe di definire l'impero asburgico o ottomano un errore?"), lo sguardo non è quello dell'esule, è tutta per il futuro, la preoccupazione: a funerali del comunismo conclusi, resta "il timore che sia perduta una leva capace di mettere un cuneo nell'inesorabilità del mercato, nell'inesorabile eterodirezione dei processi attuali di produzione e scambio sui destini dell'uomo".
Non c'è rimpianto, n‚ voglia di non vedere. C'è - e mi pare dominante - l'ansia di scoprirsi ancora capaci di indagare la possibilità della trasformazione, del capire per cambiare, non capire e basta, c'è l'ansia di chi ha sempre immaginato il ruolo dell'intellettuale più simile a quello della levatrice che a quello del retore funerario, gran cesellatore di "coccodrilli".
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