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Dopo l'esordio narrativo del 2006 con Non lo chiamano veleno (Avagliano), dove la mafia dei Casalesi veniva vista – ante Gomorra – sotto la lente narrativa di un noir livido e ironico, con Non sono mai partito, Pietro Treccagnoli torna a parlarci, con la sua lingua saporitamente narrativa, di questo oggi fatto di reality finti e di finte realtà. L'autore fa questo ricorrendo a due registri narrativi. Il primo vede protagonista il commissario Ascione in pensione che cerca, su invito di un padre, il di lui figlio Serafino, un fricchettone del 1977, che al momento del rapimento Moro era sparito da Giugliano per andare a liberare lo statista democristiano. Nell'altro controcanto metaletterario si trova un cinquantenne che, dopo trent'anni da quegli avvenimenti, spinto da una figlia quindicenne, si spinge a ricordare i suoi sogni che diventarono presto bisogni. Treccagnoli, nel didimo svolgersi narrativo, ci lascia ancora lo stesso retrogusto amaro di quel passaggio che avevamo notato nel primo titolo: il viaggio da un mondo contadino, dove tutto aveva un posto e una condivisione, a questo nuovo tempo fatto di ipermercati, "dove puoi passarci le giornate senza mai uscire, pure senza accattà niente". Il pastiche dialettale si sposa con un buon italiano, in un esperimento narrativo, che al di là dei fatti narrati, è la vera cifra di questo alfabeto giuglianese che sa di mele annurche e di scampie. Ascion,e nei suoi peregrinari romani tra checche e reality borderline, cerca lo sballato Serafino mentre si fa coinvolgere come concorrente proprio in una di queste carovane trash fatte di "mezzi scemi". E, mentre svolge le sue considerazioni sul guardare come un filosofo da terzo capitolo del manuale di Geymonant, ci consegna con l'epifania finale ciò che siamo diventati per via televisiva e i cui ultimi anni ha bene raccontato nel suo ultimo libro Rizzoli Norma Rangeri: pensiero? Game over.
Vincenzo Aiello
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