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Non sorprende che gli americani (statunitensi per esser precisi) ne abbiano voluto fare un remake, pur incastonando la sceneggiatura (rimasta pressoché identica, tranne nel finale decisamente più veloce) nei modelli del cinema hollywoodiano, senza minimizzarne peraltro la portata. In entrambi i film, la sceneggiatura della Bier è semplicemente virtuosa e splendida. Guardando anche "In Un Mondo Migliore", si scorge che la Bier ha una vena tutta sua nel riuscire a posizionare al loro giusto posto le complessità nate dalle incrinature psicologiche ed esistenziali che la modernità (con il suo dolore, si pensi al dilemma della medicina nel Terzo Mondo, o la guerra, e si osservino le nevrosi psichiche che colpiscono il protagonista di Brødre)pone senza compromessi. Sì, "Brødre" ha un tocco di classe meraviglioso: una narrazione che descrive ma dipinge allo stesso Tempo; le battute che riescono, nella loro leggera semplicità, a racchiudere uno spessore psicologico che effettivamente (come qui si dimostra bene, e pure nel remake americano si nota) i bravi attori sanno rendere, e tutto il resto sono gli elementi ricchi di pathos che la Bier inserisce in una storia tesa tra realtà e sensibile avviluppamento di una trama condotta all'esplosione che si pensa inverosimile, quando è all'ordine del giorno: tutto è ben orchestrato, come la crisi psicologica del marito-soldato, o quello della figlia maggiore, che deve portare il peso esistenziale di aver perduto il padre, per poi esserselo ritrovato vivo ma sconvolto in un secondo momento. Solo una precisazione: come ho già accennato, i finali sono diversi nella loro condotta, e se quello americano è sospeso nella tensione del gioco hollywoodiano dell'effetto poetico come scioglimento di una situazione portata all'estremo, quello danese vibra di tutt'altra poesia, ben più estrema e ben più violenta, in cui il nudo e crudo della rabbia delle vittime viene ad assumere la tagliente (ma mai totale) pericolosità della distruzione.
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