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“Nomi distanti” raccoglie “non esattamente versioni, non esercizi, non variazioni. Libere versioni? Risposte da lontano”. Echi di poeti amici, ascoltati in silenzio, per recuperare e rendere “l’essenziale di ciò che sembra inesprimibile”. Se la traduzione è insieme la più umile e la più presuntuosa delle arti, Anedda cerca per sé un nuovo ambito e ruolo, “una terza voce in un terzo spazio”, tra l’originale del poeta e il contraffatto per eccesso di fedeltà del traduttore. Prendendo l’avvio dal verso di un poeta lontano nello spazio e nel tempo, vicinissimo nel pensiero, l’autrice ricrea un suo universo di suoni e immagini; risponde a un richiamo imperioso, lascia che in sé transiti e fermenti, e infine si esprima in una sua autonoma e individuale voce. “Provo a trattare la vita con lentezza”: è in questo splendido verso la chiave, forse, di interpretazione della poesia di Antonella Anedda, e nel reiterarsi di espressioni quali “cautela”, “distacco”, “pazienza”, “mancanza”, tutti termini che indicano in qualche modo una volontà di controllo, di autodifesa, il timore di un’adesione più piena al semplice esistere. Ma in realtà, al di sotto di questa esitazione, si intuisce una forza difficile da domare, sia negli incipit delle poesie, sempre memorabili, sia nella ricerca severa di precisione con cui definire esattamente l’oggetto della poesia. Stranamente e senza nessuno stridio, in Anedda la leggerezza si concilia con la dolcezza, la precisione con l’indeterminatezza, la descrizione del particolare esterno con l’introspezione più acuta: e il dolore più immedicabile con la sospensione miracolosa di ogni sofferenza. “Lasciami parlare del dolore / da te a me; scavato fino al fondo. / Anche questa è altezza / lascia che la misuri, qui, dalla terra / in giù, dal cielo al fuoco”. Abbiamo a che fare con una poesia nutrita di dolore, che nel dolore trova la sua linfa: in cui testo e vita si tengono reciprocamente a bada, chiedendosi l’un l’altro di non farsi troppo male.
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