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Anno edizione: 1999
Anno edizione: 2016
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Da veri gemelli, Romana e Marcello, i protagonisti di questa intensa storia, dividono tutto: cibi, sguardi, giochi, nascondigli e avventure, monellerie e tenerezze. Nemmeno i loro nomi, nell'infanzia, vivono di vita propria: le vecchie zie che li hanno allevati li chiamano con un nome dal suono birichino, Manamello, che deriva dalla fusione dei loro nomi un po' austeri (voluti, si suppone, dal padre fascista in omaggio ai miti della romanità). E sarà proprio Romana, la più compromessa dal punto di vista onomastico, a ribellarsi per prima: scegliendo per sé dapprima un civettuolo Romy, e poi uno spavaldo Rom, nome che equivale a gitana, e dunque da agitare come festosa insegna di guerra. Fantasiosa ideatrice di tanti giochi d'infanzia, Romana applica l'innato talento trasformista al suo status di signorina bennata, mutando buccia insieme al nome prescelto: e così è adolescente leziosa con Romy, impertinente scugnizza conRom, e infine intransigente rivoluzionaria con Rosa (e proprio mentre il fratello, del tutto ignaro di Rosa Luxemburg, si stupisce della sua scelta inconsueta: "Strano questo Rosa così pacifico, da sposa di campagna"). E per i suoi, chi è romana? Per suo padre, talvolta, è Romannina: bizzarro nome che nella figlia fa rivivere la giovane sposa morta nel darla alla luce, e per Marcello lei è sempre e irriducibilmente Mana: il nome dell'infanzia, del rapporto fusionale, del nodo. E così, sempre, continuerà a chiamarla: scandendo le sillabe in assonanze di nostalgia ("Mana Mana lontana") o di scherzo ("Mana Mana Buana"), e nel momento del pericolo, formando catene di invocazioni rituali, che valgono ad allontanare il male da lei: "Mana bella, Mana buona, Mana bianca nel primo grembiule di scuola, Mana viva, a ogni costo questo conta, Mana di chi la salva, Mana anche lontana". consiste proprio in questo infantile e sempiterno sortilegio dei nomi la peculiarità della scrittura: è da qui che ricava il suo ritmo struggente. Parole che sono state fuse in un unico stampo con i sentimenti e le emozioni, nomi che li hanno avvolti come in un bozzolo, espressioni indelebili che tornano nella memoria e nella bocca anche quando il nodo si è sciolto. A Mana un destino, liberamente scelto, di itinerante: in Eritrea, dapprima, e poi lungo i sentieri di guerra, di tante guerre. È fotografa e giornalista, donna mai pacificata, nomade che perde per strada il suo magro bagaglio. A Marcello un destino, liberamente scelto, di stanziale: proprietario terriero avveduto che fa fruttare l'azienda di famiglia, che negli anni ottanta si fa "rampante" e smodatamente accumula: terreni, case, potere. Attraverso le lettere che si scambiano, attraverso quelle parole che rimbalzano dall'una all'altro in maniera obliqua e dispettosa, è possibile misurare l'entità del taglio. Il procedimento usato dalla scrittrice è un incessante controcanto: ogni lettera è intervallata dai commenti del destinatario, e dunque i ricordi, gli episodi di vita trascorsi insieme, in un unico bozzolo, si muovono instabilmente da una sponda all'altra, vacillano, non più univoci, non più affidabili. E si arriva al distacco totale, consumato nelle aule di un tribunale dove i fratelli sono chiamati a spartirsi il patrimonio di famiglia. Gli aridi termini del linguaggio giudiziario, che un tempo sarebbero stati oggetto di scherno comune, ricevono ora divaricate interpretazioni: se a Mana "deporre" dà l'idea della cova o del sudario - i poli ineliminabili della sua vita di viandante, che spogliandosi progressivamente di tutto s'è ridotta all'essenziale -, a Marcello richiama piuttosto le armi o la maschera: e qui il riferimento non è a se stesso, ma alla sorella di cui teme, o forse ha sempre inconsciamente temuto, la forza e le capacità trasformistiche. Le forbici hanno lavorato bene: ma lentamente il taglio si rimargina, e di nuovo raffiorano nelle lettere, dopo un lungo intervallo di silenzio, i ricordi d'infanzia; ogni minuzia e ogni frammento recuperati dal buio e dall'equivoco diventano simbolo: gli occhi sgusciati della bambola che diceva Mamma, il vecchio e frusto cintino di cuoio, la zuppa inglese. E non è un caso che proprio lei, sigla dei fusionali compleanni infantili, si presti a riannodare, nel bellissimo finale, il legame tra Romana e Marcello. Stavolta è proprio Mana, la fuggitiva, la ribelle alle tradizioni familiari, a preparare la zuppa inglese nella sua cucina lontana, in una sorta di rito di conciliazione che sciolga per sempre, nel morbido e dolcissimo impasto degli ingredienti, durezze e veleni.
recensioni di Vittori, M.V. L'Indice del 1999, n. 05
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