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Esce nella versione italiana questo Machiavelli di Corrado Vivanti che, già apparso in Francia, è il frutto della puntuale annotazione di tutta l'opera del segretario fiorentino pubblicata nei tre splendidi volumi della "Pléiade" Einaudi: le loro triplici introduzioni, rielaborate e ampliate formano infatti l'ossatura dei tre articolatissimi capitoli nei quali il libro si presenta: Il Segretario fiorentino, Esule in patria, Niccolò Machiavelli istorico, comico e tragico.
Quello che intanto va subito detto è che gli eventi della vita di Niccolò, relativamente scarsi a far eccezione del periodo del suo segretariato (1494-1512), si fondono perfettamente nella scrittura dell'insigne studioso non solo con la minuta analisi della sua opera (di quella stessa che si definirebbe minore, ma che minore non è), ma anche con i nodi più rilevanti che la critica e la storiografia letteraria di ogni paese ha, in tanti secoli, via via sollevato, risolto o lasciato ancora aperti. Se, per esempio, non si dovrebbero avere più dubbi (ma non è così) che l'opuscolo del Principe sia uno scritto, come già pareva a Chabod, dettato di getto nell'estate-autunno del 1513 in particolarissimi frangenti umani e circostanze storiche, i rapporti e le connessioni fra l'operetta più popolare di Machiavelli e quella sua più grandiosa, i Discorsi, sono ancora motivo di accese e non sempre vane discussioni. A proposito, anzi, di queste libere, franche e sovente originalissime considerazioni sulla storia di Roma nel periodo del suo divenire potenza mondiale (prima deca di Tito Livio), giustamente Vivanti sottolinea la forma innovativa in cui esse si vennero formulando ed evoca pertanto i saggi di Montaigne e di Francis Bacon, ossia l'apertura dell'individuo sul mondo e sulla storia esclusivamente confidando sulle forze del proprio intelletto, della propria ragione e, certo non da ultimo, della propria esperienza.
Questo periodo eccezionalmente glorioso della, per così dire, "formazione di Roma", era stato invero, già un secolo e mezzo prima, particolarmente studiato anche da Petrarca con la galleria dei suoi Uomini illustri; se non che nel cantore di Laura – che tuttavia fu pure colui che diede il via alla grande tradizione storiografica dell'Umanesimo – il fascino liviano del mito di Roma ebbe sempre a prevalere, così impedendo, allo storico-ricercatore, di cogliere, nel ripercorrere i grandi fatti della storia, tutti quegli insegnamenti, quelle provocazioni o quelle considerazioni che la fredda analisi del passato poteva suggerire a una mente che, ben più decisamente di quella di un Petrarca, aveva costantemente sott'occhio le soluzioni da dare a un tragico presente. Perché questo, infine, è il grande filo conduttore che unisce tutta l'opera di Machiavelli: mettere la patria – sia essa Firenze o l'Italia – di fronte alla catastrofe che si era annunciata con la discesa di Carlo VIII nel 1498: l'anno stesso nel quale, di fatto, l'autore del Principe balza sulla scena e inizia il suo lungo tirocinio di uomo di stato. Non fu ascoltato e, dal 1559, avremo l'Italia spagnola.
Del resto, nelle pagine introduttive nelle quali si tratteggia l'età in cui il pensiero di Machiavelli si colloca come età di profonde trasformazioni anche dal punto di vista scientifico-culturale (età, in sostanza, che comincia a vedere, nonostante certe permanenti contraddizioni, la reale fine dell'epoca feudale e l'insorgere di una nuova visione del mondo), è dato ampio spazio a quella che, riguardo all'Italia, risulterà una questione determinante: la formazione, al di là dei suoi confini delle prime forme di stato assoluto e il permanere, al contrario, entro i suoi confini, di una situazione di stallo, eufemisticamente scambiata (o volutamente intesa) come un perfetto stato d'equilibrio. Il mito del Magnifico Lorenzo e dell'aver egli rappresentato il cosiddetto ago della bilancia sono eloquenti indizi dell'effettiva impreparazione politica delle classi dirigenti italiane e della loro scarsa lungimiranza, Venezia compresa. Solo Machiavelli comprende la necessità che anche in Italia si debba realizzare uno stato assoluto forte e militarmente equipaggiato (non per esempio Guicciardini), donde nel suo scritto più famoso, la "scandalosa" mitizzazione di un Cesare Borgia e, al tempo dell'Illuminismo, e ancora in Foscolo, l'affannosa strategia della cosiddetta "interpretazione obliqua" per evitare che il segretario fiorentino divenisse il celebratore della tirannide.
Con lui in realtà, per usare la bella definizione desanctisiana, esce "il mondo moderno dello stato" e ha ragione Vivanti quando sostiene, data la sua complessità e le continue connessioni con la realtà storica del problema, che è perfettamente inutile, quando non addirittura sviante, costringerlo entro schemi ideologici inneggianti alla dittatura o alla vita repubblicana (che rappresenta certo, anche in Machiavelli, il fine ultimo di una società civile). Ma è così discosta la realtà dall'immaginazione, il come si vive dal come si dovrebbe vivere, che egli non ebbe né volontà né agio di immergere la propria mente in siffatte questioni astratte, rimanendo comunque la costruzione dello stato una necessità inderogabile. E proprio con un interessantissimo studio su come abbia da intendersi il termine "stato" in Machiavelli l'ottimo contributo di Corrado Vivanti si conclude.
Ugo Dotti
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