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La vasta opera romanzesca di Benito Pérez Galdós si presenta come un mondo traboccante di vita, abitato da personaggi così profondamente immersi nel loro tempo da divenire immortali proprio a partire da quella temporalità che li segna così fortemente. Il lettore che vi si inoltra viene immediatamente attratto dalle costruzioni più originali ed elaborate, i capolavori: La desheredada, Fortunata y Jacinta, Angel Guerra, veri e propri giganti della narrativa ottocentesca. Isidora Rufete, Fortunata Izquierdo, Angel Guerra poco o nulla hanno da invidiare, quanto a vita e presenza, a Julien Sorel, a Emma Bovary, a Rastignac. Ma, sostiene un'autorevole e appassionata lettrice dello scrittore canario, María Zambrano, sono le costruzioni minori, gli angoli appartati quelli che davvero riservano sorprese. Il Nazarín appena pubblicato dall'editore Avagliano in una accattivante veste grafica, molto ben tradotto da Bruno Quaranta e Lucio Sessa, con una agile ed efficace introduzione di Rosa Grillo, costituisce una di queste sorprese. Una buona occasione per il lettore italiano per avvicinarsi all'opera di Galdós. Questo breve e intenso romanzo, composto nel giro di pochi mesi nel 1895, fu seguito da Halma, che in un certo senso lo chiarisce e lo completa. Non è la prima volta che Nazarín viene proposto in Italia; come Tristana (anch'esso più volte tradotto), ha potuto contare su un lettore d'eccezione: Luis Buñuel, che nel 1959, in Messico, ne trasse un film molto suggestivo, il suo preferito.
Don Nazario Zaharín è un prete povero che vive serafico e inflessibile tra gitani e prostitute, mendicanti e piccoli delinquenti nei sobborghi miserabili di Madrid. Nulla sappiamo di lui tranne che è nato nella Mancia, figlio di pastori. Le fattezze semite lo dicono scaturito dal profondo del grande rimosso nazionale, la cultura arabo-semita, e sono le stigmate della sua emarginazione. Vive di poco don Nazario: un alloggio modesto, poco cibo. Sennonché anche quel poco gli viene di colpo a mancare quando una gitana di malaffare cui ha dato asilo dà fuoco alla casa per cancellare le tracce del crimine di cui è responsabile. A questo punto, allontanato dalla chiesa, don Nazario inizia, scalzo, il cammino che lo trasformerà in Nazarín, vivente incarnazione dell'insegnamento evangelico. Seguito da quella donna che è rimasta folgorata dalla sua mansuetudine e da un'altra che, lungo la strada, si unisce a loro, si incammina per le strade polverose della Castiglia, vivendo di elemosina, accorrendo dove c'è da consolare, soccorrere, guarire. Risponde alle offese, al dileggio e alle aggressioni con la mitezza, offre al prossimo una carità fattiva. Non è un riformatore, non è un mistico pretenzioso come il santo di Fogazzaro, ma piuttosto un soldato della santità. Si mette in cammino spinto dalla necessità, dorme all'addiaccio, divide con i più poveri tutto quello che ha. I suoi interlocutori sono gli emarginati. Riesce a disarmare un eccentrico e violento gentiluomo, don Pedro di Belmonte, relegato dalla sua potente famiglia in una tenuta di campagna, che resta come incantato dalla serena povertà dell'umile e fiero sacerdote. Quest'itinerario mistico-picaresco che ha come spazio la strada, come attori i diseredati, i deformi, come tempo la notte si conclude con il ritorno a Madrid. Lo aspettano il carcere, un processo. In preda ai deliri del tifo Nazarín, nell'ultima scena del romanzo, viene confortato dal suo Dio.
È pazzo Nazarín? O è un santo? L'uno e l'altro suggerisce con ironia cervantina Galdós. È pazzo perché vuole mettere in pratica l'insegnamento evangelico in un mondo che ne ha smarrito completamente la nozione: non a caso gli unici in grado di riconoscere la purezza e la sincerità sono i diseredati e i matti come il signore di Belmonte. La società, la giustizia, l'autorità ecclesiastica desiderano sbarazzarsi di lui perché temono il valore radicalmente eversivo del suo esempio. Non c'è da stupirsi, dunque, se un testo così intenso, ambiguo e visionario che evoca a ogni passo la memoria sempre destabilizzante di don Chisciotte abbia sollecitato l'immaginazione di Buñuel, attento e profondo lettore dello scrittore canario. L'omonimo film ebbe minor fortuna del più noto Tristana, che si avvantaggiava anche della presenza carismatica di attori di grande richiamo. Ricorderemo soltanto che l'azione si svolge nel Messico porfirista e, a differenza di Tristana, apporta modifiche non lievi al testo, accentuandone l'atmosfera lunare, intensificandone gli aspetti visionari. Per Buñuel Nazarín è un anarchico e la religione un'aberrazione. Ritroveremo ancora il fervido prete mancego in Halma, in attesa del processo, accanto a un'aristocratica che ha deciso di dedicare la sua vita al bene del prossimo. Ammaestrato dal suo scacco, Nazarín è il saggio consigliere che la spinge a fondare una famiglia come nucleo di quella carità attiva e autentica che spaventa le istituzioni ecclesiastiche.
Il Galdós che Buñuel ricorda nella sua autobiografia è un vecchio cieco, assorto, circondato dalle ombre familiari dei suoi personaggi, "uno scrittore grandissimo, spesso pari a Dostoevskij", ma pressoché sconosciuto fuori della Spagna. Da qui la sua intenzione, frustrata dalla guerra civile, di portare sullo schermo molti dei suoi romanzi.
Quarant'anni prima lo scrittore canario aveva messo mano al grande progetto di raccontare la Spagna del suo tempo e (giacché di questo in sostanza si trattava) di formare la mentalità laica di una borghesia ancora incerta nei suoi orientamenti, sedotta da vecchi modelli di vita e di pensiero. In Europa il realismo e il naturalismo erano già consolidati: si trattava di nazionalizzarli. Come acclimatare il romanzo in Spagna? Facendo rivivere don Chisciotte, riattualizzando il modello cervantino. Ecco perché al centro dell'universo narrativo di Galdós troviamo il personaggio "incitato", un individuo, spesso donna, che non accetta la prosaicità del suo tempo e ad esso contrappone il suo desiderio singolare. In un primo tempo, da liberale laico e fiducioso nel progresso, Galdós è convinto dei valori borghesi e pensa che il suo protagonista incitato debba fare i conti con la realtà; ben presto questa fiducia nel reale, corrosa nel profondo dalla lezione cervantina, viene meno, di pari passo con lo sgretolarsi dell'edificio naturalista sotto i colpi della reazione decadente e della lezione del romanzo russo. Del resto, scrutata a fondo, quella borghesia mostrava tutta la sua inconsistenza etica, la sua colpevole subalternità ai valori dell'oligarchia dominante, un'allarmante mancanza di progettualità.
La degenerazione dei valori borghesi comporta la radicalizzazione della posizione dello scrittore e del suo personaggio che occuperà da solo il centro della scena. Scartata la soluzione estetico-decadente, il romanziere tenta di mantenere ancora i legami tra valori individuali e valori collettivi. Con la filosofia dell'amore Galdós cerca una soluzione al problema, tutta sbilanciata verso l'individuo. Si tratta di un'utopia generosa fondata su una filosofia irrazionalista, che sogna di modificare la realtà attraverso l'operatività sociale del sentimento. La filosofia dell'amore e della fraternità come strumento di trasformazione della realtà è di radice cristiana e nazionale. L'eroe spiritualista non ha volontà di potere, di dominio, ma di perfezionamento. E finisce per imporsi al suo autore come don Nazario Zaharín.
Proprio rileggendo il breve e intenso Nazarín con i suoi chiaroscuri goyeschi, con la sua ambigua ironia, viene da chiedersi per quale ragione il lettore italiano debba essere privato della possibilità di conoscere l'opera di un romanziere così originale. L'unica ragione che viene in mente sono le logiche di breve respiro (anche dal punto di vista del mercato), che guidano ormai le scelte delle grandi case editrici italiane, comprese quelle che continuano a definirsi di cultura.
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