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In quest'opera Paolo Ruffilli conduce un'indagine conoscitiva sulla natura ("morta" in quanto esito di una rappresentazione prospettica che la oggettiva e definisce?), sfiorandone le estremità, i confini rovinosi del precipizio, ovvero il limite metaforico sul bordo del quale percepiamo sorpresi e interdetti l'arietta fresca dell'abisso - baratro della conoscenza, termine dell'esperienza umana, principio del mistero. Nei suoi versi - di solito impostati sull'ordine del massimo dicibile nel minimo espressivo (moderatezza verbale mai minimalista od oscura) e dalla scansione ritmica e melodica del suo valido orecchio musicale - anche le parole si arrestano sull'orlo del vuoto, si rinserrano al cospetto di correnti tanto spaventose - è il brivido della ragione che contempla il proprio limite l'origine di questo "horror vacui". Seguiamo l'autore con trepidazione e curiosità, confidando nella sua peculiare rassegna delle categorie della materia, del tempo, della parola e del sapere - una ricerca attraversata dagli interrogativi, ricettiva anche verso quegli angusti contesti della personale esperienza nei quali si annidano le "naturali" qualificazioni dell'essere umano. Impariamo con lui che si contrasta il vuoto antimaterico, più sottraendoci ad esso con la forza significante delle parole che con il combattimento diretto. Non sorprende che, a fine raccolta (nel "Piccolo inventario"), dopo un'esposizione tanto perigliosa (e trascendente) alle correnti ascensionali provenienti dal baratro, si torni a considerare la prosaicità dei gesti, dei fatti, degli oggetti quale preziosa garante del proprio invalicabile, ma in fondo rassicurante, orizzonte umano.
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