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La bella storia di un' amicizia resa in prosa elegantissima.
Libro di notevole spessore, costruito sul filo del ricordo, della nostalgia,della riflessione, dell'analisi sulla realtà napoletana, attraverso un dialogo con il singolare personaggio Caracas. Un libro che fa molto meditare.
Temo di aver nutrito aspettative sbagliate nei confronti di questo libro che si è fatto comunque leggere.
Recensioni
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Poche città sono state raccontate e descritte (ma forse sarebbe, in questo caso, più appropriato dire "auscultate", trattandosi di un'eterna grande malata al cui capezzale giungono ad libitum frotte di scrittori a registrarne l'interminabile agonia) quanto lo è stata Napoli, soprattutto nel corso del Novecento: snocciolare qui la litania dei titoli significherebbe occupare per intero, o quasi, lo spazio di questa recensione.
Ermanno Rea ha dedicato alle vicende tormentate e complesse che da sempre caratterizzano la storia di questa sua odiosamata città tre libri: questo Napoli Ferrovia è dunque la terza anta di un trittico cominciato nel 1995 con Mistero napoletano (Einaudi) e proseguito poi con La dismissione del 2002 (Rizzoli). Romanzi tutti che rimandano a una scrittura fra il reportagee il saggistico, vere e proprie quêtes enucleate per lo più attorno a personaggi dotati di una sorta di sovradimensionalità figurale. Di essi l'autore si serve per esprimere, nell'inquietudine irrisolta di esistenze non pacificate, il riverbero di traumi personali e collettivi che, in tempi diversi, hanno segnato profondamente la storia di questa città. Nel primo volume della trilogia, la vicenda si concentrava attorno alla figura di Francesca Spada, giornalista dell'"Unità", militante comunista, suicidatasi appena due anni dopo Renato Caccioppoli, suo intimo amico, quel Matematico napoletano, magistralmente interpretato da Carlo Cecchi in un bel film di Martone. Nel secondo romanzo, il protagonista era Vincenzo Buonocore, l'operaio tecnico costretto a "smontare" letteralmente la propria fabbrica prima della fine del sogno della Napoli industriale e in concomitanza con l'arrivo dei cinesi.
Anche in questa parte terza Rea si attiene alle modalità narrative delle altre due. Infatti anche qui tutto l'intreccio sembra avvilupparsi attorno a una curiosa figura, quella di Caracas (il nomignolo sudamericaneggiante indica una sua antica origine venezuelana), un fastello di contraddizioni insanabili, ma capace comunque di perlustrare, aiutato dalla propria sgangherata umanità, le incurabili piaghe della Napoli contemporanea: droga, illegalità, abuso edilizio, degrado, violenza. L'ottantenne io narrante, che senza infingimento alcuno è Rea stesso, disillusa "cariatide comunista", decide di affidarsi corpo e anima a questo "segugio, cane da fiuto". Caracas lo guida soprattutto in una zona molto particolare di Napoli, l'intrico labirintico di strade, vicoli e slarghi chiamato Ferrovia che si stende attorno a piazza Garibaldi: un po' suk, un po' angiporto, un po' ventre molle e disperato della città. Oggi è la porta principale e il cuore pulsante di Napoli: il primo approdo, e spesso anche l'insediamento definitivo, per un gran numero di extracomunitari provenienti da ogni parte del mondo. Ma è soprattutto una pars pro toto questa Napoli Ferrovia, perché in realtà la folle conurbazione che fonde ormai senza soluzione di continuità almeno tre province campane (Napoli, Salerno, Caserta) riproduce, come una tracimante gigantesca metastasi, tutto il dolore e la sofferenza e il degrado della zona succitata. Quel dedalo di strade si trasforma così in uno popolatissimo teatro notturno delle insonni peregrinazioni dell'io narrante e di Caracas: peripatetici che filosofeggiano e concionano immersi nell'humus profondo della città.
Caracas è un bizzarro Virgilio, attratto dagli inferi (qualsiasi forma essi assumano: umana o urbanistica), di professione fotografo e mille altre cose insieme. Naziskin sulla via della conversione all'islam, antisemita e antiamericano, terzomondista, anticonsumista, integralista romantico fuori tempo massimo, visionario e pragmatico, vittima di una strana tabe, quella che gli permette di "scivolare" nelle vite altrui per eccesso di sfrenatezza psichica, per surplus di immaginazione. L'io narrante è invece un intellettuale immalinconito alle prese con un incarico professionale che lo riporta nella sua città dopo quasi cinquant'anni: un razionalista loico colmo di scetticismo e disincanto, capace di improvvisi soprassalti di commozione e di furore. Sta con Caracas perché gli consente di scendere "con lui nell'inferno, e lui me lo spiega, mostrandomelo così come lo vede con i suoi occhi: senza rancore per nessuno, disprezzo per nessuno, gelosia per nessuno". È un viaggio bidimensionale in cui spazio e tempo sono correlati da una specie di imprevedibile contrappasso. Tanto più, infatti, affondano nel ventre fangoso e lutulento della città, tanto più sale alla superficie il passato dell'io narrante. Un'impresa rischiosa e ardua, perché si tratta di rinvenire i resti delle proprie madeleines in mezzo al cemento, alla droga, ai rifiuti.
Con l'accumulazione delle riflessioni e delle vicende, il libro si trasforma pagina dopo pagina nel diario di una nevrosi: è l'appassionante "registrazione di una realtà in transito" che diventa incombenza insopprimibile, "una trama alla quale io non posso fare altro che corrispondere al di là della mia stessa volontà". Insieme a quel passato, rievocato per frammenti e lacerti, viene recuperata anche la memoria di ciò che Napoli era prima dell'apocalisse, il sogno di una città dove esisteva ancora una parvenza di decoro architettonico e sociale, una etica dell'esistenza che sembra oggi improponibile. Persino l'antica vitalità è come intorbidita da un'aria di rassegnazione generalizzata che prospera nella sazietà e nel consumismo, che si nutre di disagio, incertezza e paura. La sua bellezza, se ancora esiste, va ricercata in mezzo alla "gente nova", al melting pot cosmopolita che la popola e che fa di Napoli Ferrovia il proprio regno.
Ma sarà sempre una bellezza non separabile dalla dannazione e dalla ferocia. Come quella della tossicomane amata da Caracas in una relazione ultramaudite, quella Rosa la Rosa che si staglia come una delle più intense e aggrovigliate e affascinanti figure femminili della letteratura italiana di questi ultimi anni. Il finale di cui, per ovvie considerazioni non parlerò, somiglia però troppo a un escamotage narrativo; in esso affiora la stessa candida ingenuità con la quale Rea propone soluzioni che si vorrebbero salvifiche per la città (per esempio, riempire la città di fiori e di strisce zebrate…).
Linnio Accorroni
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