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Già autore di svariati studi riguardanti la storia del pensiero novecentesca, Danilo Breschi è docente alla UNINT di Roma. Dedica la prima parte di questo volume alla questione del rapporto fra territorio, masse inurbate e società in evoluzione discussa in seno alle élite europee verso fine Ottocento: con eccessi ruralistici (la critica delle “città piovra”) e modernistici (si pensi ai futuristi). In Italia, i socialisti della “Critica sociale” vedono di buon occhio la crescita della città, mentre il sindacalista rivoluzionario Arturo Labriola la attacca, in quanto fomite di edonismo e individualismo. Anche nella composita galassia fascista è individuabile un’irrisolta dialettica: attiene al contrasto fra il culto della vita dei campi, delle sane virtù primordiali, dello spirito comunitario da un lato e l’interesse per l’industria, la tecnologia, l’espansione delle infrastrutture dall’altro. Ciò porta in evidenza quella che Breschi definisce la «natura ancipite» del fascismo, la sua profonda «indecisione fra innovazione e conservazione», come dimostra in queste pagine un ricco apparato di fonti (andrebbe forse approfondito anche il caso di Tresigallo, la città reinventata dal leader del sindacalismo fascista Edmondo Rossoni). Non a caso affiorano numerose sfumature nell’affrontare il problema, sia tra amministrazioni locali, sia tra esponenti politici. Si prenda la generica idea di antimodernismo: da definire e precisare in rapporto alla concezione di Benito e di Arnaldo Mussolini, o di un Malaparte, o, ancora, di un Maccari, cantore del fascismo provinciale e di Strapaese. Il cortocircuito fra orientamenti solo in parte conciliabili è, del resto, costante...
GRANDE LIBRO..!
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