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recensione di Roat, F., L'Indice 1994, n. 4
A due anni dal felice romanzo d'esordio "Il ballo tondo" (Marietti, 1991), Carmine Abate si ripresenta ai lettori con quattordici brevi storie d'emigrazione, incentrate sul tema dello sradicamento, visto come alienazione e perdita d'identità. Un duplice sradicamento dalla "piccola Arberìa" (la comunità formata da decine di borgate fra Molise e Sicilia, in cui si parla l'antico albanese): linguistico e culturale, ma anche affettivo. E una duplice frustrazione, quando il tentativo di recupero delle origini sia inteso a restaurare tutto un mondo di ricordi che la memoria ha sublimato in Eden e che l'impatto reale col ritorno al sud mostra abitato da gente ostile e diffidente nei confronti di chi viene ormai considerato come transfuga o, peggio, straniero da invidiare.
Voci narranti dei racconti di Abate sono ancora una volta i "germanesi", esuli sempre, all'estero e in patria, i quali vivono l'emigrazione come una "malattia inguaribile che una volta presa non te la togli più di dosso". Così l'esodo dall'indigenza - ma insieme dalla diversità culturale della piccola Arberia - appare una sorta di vocazione coatta alla marginalità, e una scelta obbligata, vissuta come una lacerazione insanabile ("partire è come rompere qualcosa ch'era tutto per te"), generatrice di una disperazione che nella solitudine dell'esilio può tuttavia mutare da cieco rancore via via a disincanto, a sofferta consapevolezza della propria condizione intollerabile di eterni ghettizzati. Non mancano dunque nel "Muro dei muri" riferimenti espliciti a problematiche d'attualità, quali lo sfruttamento dei 'Gastarbeiter', o l'allarmante diffondersi in Germania di xenofobia e violenza naziskin. E l'ultimo dei racconti, che dà il titolo alla raccolta, alludendo al muro per antonomasia ormai distrutto, accenna a una barriera ben più ardua da abbattere a Berlino: il razzismo. Ma ogniqualvolta il Nostro abbandona la dimensione colloquiale e intimistica del disagio soggettivo per cimentarsi nell'arena dell'impegno civile, quando il grido di dolore individuale si fa denuncia sociologica, l'invettiva tende a scivolare pericolosamente nell'enfasi retorica.
Assai più convincenti e riusciti si rivelano allora i racconti meno didascalici, in cui emerge quella che è l'irrisolta tensione che muove tutti i personaggi delle storie di Abate, troppo spesso incapaci di misurarsi con la realtà concreta del qui e ora, delusi da un presente fatto solo di sacrifici (termine emblematico, cinque volte reiterato in un racconto), sempre sospesi fra il sogno di un'improbabile riscatto e il rimpianto per un'Arberia mitizzata. Ma è proprio la narrazione di questo scarto da colmare fra lontananza e presenza a costituire l'arco voltaico da cui scocca la scintilla inventiva della prosa variegata di Abate: un italiano in cui lo scrittore innesta neologismi dialettali e inedito slang "germanese", modulando una scrittura sempre scorrevole, a tratti rudemente "plebea" per certe colorite scelte lessicali, a tratti scopertamente letteraria nei rimandi classicheggianti e verghiani. Coraggiosa certamente nel dire il desolato spaesamento di antieroi, costretti a varcare la frontiera armati solo d'una valigia di cartone e di rabbia.
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