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La “poesia di pensiero” di Giancarlo Pontiggia (come viene definita nella nota del risvolto di copertina), sempre molto apprezzata per il suo classicismo raffinato e severo, per la particolarità della sua voce aristocraticamente lontana dalle mode, trova in questo libro nuovi accenti, forse più omologati agli indirizzi stilistici e tematici oggi in atto. Si tratta di un testo composito e ansante, scosso da continui trasalimenti che però vengono controllati, bloccati sul nascere, quasi che l’autore si sia imposto di non cedere al flusso di un trasporto emotivo troppo coinvolgente o irrazionale. Le poesie sono per lo più brevi, epigrammatiche, frammentarie, talvolta caratterizzate da una sentenziosità gnomica: «Chi s’incammina, / già pensa al suo ritorno. / Ma chi resta, // salpa ogni giorno». “Le cose” del titolo assediano il poeta, più concrete e imperiture di lui, fragile invece nella sua caducità, nel senso oppressivo di una fine che sente minacciosamente vicina e ineluttabile. Il futuro è inesistente, il passato ha le sembianze di un incubo: «Vengo a voi, ombre / di Ade, e alle vostre / case profonde», e tutta l’esistenza rimane misteriosa e ingiustificata. La riflessione di Pontiggia è rivolta allo scorrere crudele del tempo, in un’entropia distruttiva che non lascia scampo. Lo si deduce non solo dalle immagini che fanno da sfondo ai versi (sassi, dirupi, piogge, acque turbinose), ma anche dalla scelta insistita dei verbi, che indicano un continuo cadere, e un cedere alla violenza – non tanto umana quanto metereologica, cosmica, sovrannaturale –, in un paesaggio terremotato, inondato, stravolto da cataclismi naturali: “inabissarsi, disgregarsi, precipitare, franare, affondare, sgretolarsi, incrinarsi, annaspare”. Il poeta è trascinato dalla natura e dalla storia in un turbine di annientamento, privato di un rapporto con l’altro da sé che lo metta al riparo dal «respiro possente» del mondo, dal suo «operoso, micidiale// moto».
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