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Per un anno e mezzo, dall'autunno 1971 al maggio del 73, Ludovica Ripa di Meana si recò nella casa romana di Carlo Emilio Gadda per preparare una trasmissione televisiva sulla sua opera e sulla sua vita. Man mano che cresceva la confidenza e l'empatia tra i due, il grande scrittore chiedeva alla "signora Meana" (così le si rivolgeva) di leggergli brani dei suoi stessi capolavori, o di classici, dando segni di approvazione, o addirittura commuovendosi fino alle lacrime quando ascoltava i Promessi Sposi. Le poche pagine ora riproposte da Nottetempo sono le conclusive di un diario tenuto dall'autrice in quegli anni, la testimonianza "di natura rigorosamente privata" di incontri che lei proponeva a Gadda "per consolarlo e rassicurarlo di fronte all'imminenza del buio", come scrive Andrea Càsoli nella postfazione. Descrizioni quasi devote di un interno domestico, e soprattutto del "processo di mortificazione" di un "remoto prigioniero" a cui l'amica vuole trasmettere "infinito amore" per "staccarlo, con furia, dalla sua desolazione". E con affetto quasi filiale, con pietas rispettosa racconta le umiliazioni di quel grande corpo malato, le sue furie, le sue decadenze e i suoi pudori. Manifestando una sorridente partecipazione, Ludovica Ripa di Meana narra delle schermaglie del genio con la sua vecchia domestica Giuseppina, che lo tratta come "un infante di pochi mesi", lo lava e disinfetta con alcol e acqua di colonia, gli prepara cibi appetitosi e ci litiga furiosamente perché lo considera la sua "criatura". E infine si sofferma sul momento tremendo del trapasso di Gadda, sul respiro faticoso che diventa "un terribile nitrito", e poi la spogliazione, il lavaggio, e il gesto rituale e riconoscente con cui lei gli annoda la cravatta per l'ultima volta: "Finalmente giace l'hidalgo...E' vestito da prima comunione e ha scarpe nere lucide spropositate". "Clown desolato, inondato di luce".
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