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A vedere la videocassetta allegata al Moravia di Raffaele Manica, che la regista Antonella Zechini, lavorando sul materiale d'archivio (interviste e documentari, la memorabile orazione funebre per Pasolini), ha approntato per Rai Educational, si ritorna a una dichiarazione di Sylva Koscina del 1962: "Secondo me l'uomo più bello del mondo è Alberto Moravia: pochi visi esprimono quanto il suo, così scarno, forte, virile, una tensione creatrice, una costante insoddisfazione d'artista, un'intelligenza profonda e ansiosa". Già, la bellezza di Moravia: che, per me, è subito coincisa con la capacità, sua in modo forse unico nel Novecento italiano (con quelle mani grandi e nodose, con quelle nevose sopracciglia: meravigliosamente enfatizzate dal disegno di Tullio Pericoli in copertina), di mutarsi in icona di sé stesso, fisiognomicamente oltrepassando ogni contingenza, sino a raggiungere, come suggellandosi, la verità quasi pop del ritratto di Guttuso del 1982. E come poteva essere altrimenti?
Manica, in questo libretto già imprescindibile, ce lo fa capire meglio di tutti, approfondendo un'intuizione di Baldacci, a proposito del "meraviglioso stile di plastica" dell'ultimo Moravia, per declinarla in direzione della storia del design: "Del design in Moravia si può riconoscere anche il tratto della serialità (soprattutto nei racconti), sicché, per intendere la sua ultima e penultima stagione occorrerà tener presente il rifiuto, da parte sua, dell'aura che ha accompagnato per secoli i fatti artistici e insistere su come, però, il rifiuto vero riguardasse in lui piuttosto gli equivoci e i malintesi sulla sacralità dell'opera d'arte che l'aura in sé. Né da questo è assente la possibilità di leggere ampie zone di Moravia a partire dalle risultanze più evidenti delle arti figurative nel loro sviluppo novecentesco, dal cubismo all'astrattismo alla pop art".
L'accoppiamento Manica-Moravia, per una collana d'impegno divulgativo come "I grandi autori italiani del '900", poteva sembrare il meno giudizioso possibile. Tenuto anche conto dello scetticismo storico del critico, diciamo del suo elegante guicciardinismo (così su certe rumorose rivelazioni d'archivio relativamente al rapporto di Moravia col regime: "Se del passato, in genere, sappiamo poco, anzi niente, del passato degli altri sappiamo anche meno"). Manica, poi, è probabilmente il critico di maggiore intelligenza prosodica della sua generazione (quella dei quarantenni). Moravia (con Pirandello e Svevo, a dir la verità), invece, è lo scrittore italiano del Novecento di cui non s'è mai finito di lamentare il "cattivo stile". Epperò è lo stesso Manica a ricordare qui il fatto che i romanzi più innovativi del Novecento sono proprio quelli che "hanno subito la stessa accusa di cattivo stile": "Il bello stile non essendo che l'adagiarsi su una preesistente maniera".
Che è il miglior modo, credo, di chiudere il discorso al suo livello più generale, ma procedendo poi all'unica verifica plausibile, la più ravvicinata: per arrivare a dimostrare, oltre ogni residuo dubbio, la tenuta linguistica eccezionale dell'opera − pur nelle sue ovvie discontinuità, data la mole − alle più diverse altezze, non senza insinuare il sospetto che Moravia preceda sul traguardo dei risultati (e sul loro stesso campo) persino gli scrittori che, a partire dai sessanta, avevano puntato tutta la posta sulla questione del rapporto tra linguaggio e reificazione neocapitalistica. Basterebbe richiamare, a credito del Moravia prosatore, quel che Manica scrive, quanto a Gli indifferenti, sull'importanza del punto e virgola nel regolare i rapporti tra "didascalia" e "azione" (l'interpretazione degli Indifferenti improntata sul gioco teatrale di quinte e luci, resta l'ultima importante autorizzazione d'un capolavoro assoluto del secolo appena trascorso). Ma non vorrei che il lettore si perdesse – e qui il critico gioca di carambola come nessuno − il veloce confronto tra Moravia e Landolfi, lavorando a chiasmo (con Landolfi sottilmente parodico) gli incipit degli Indifferenti e di Mani.
Manica ha rispettato tutti i vincoli di collana: dall'impostazione cronologica alla bibliografia ragionata. Ma nei costanti passaggi dal dettaglio al quadro − laddove il dettaglio può essere fisico, stilistico, psicologico, antropologico, ideologico, storico − il panorama ci si rivela spesso imprevedibile: come quando, a proposito di Agostino (e del tema "della sofferenza e della cattiveria che l'adolescenza porta con sé"), ci sorprendiamo a ragionare su L'onda dell'incrociatore di Quarantotti Gambini. Bellissime le pagine sui viaggi: non per leggerle a discredito del narratore (l'operazione tentata da un tardivo Guglielmi), piuttosto per complicarlo e celebrarlo. Come quelle, davvero restitutive, sull'ultimo e inestetico Moravia. Sono entrato in questo libro con un duplice e positivo pregiudizio: su Moravia, su Manica. Ne esco confortato, ora nel giudizio, sullo stato tutt'altro che agonico della critica italiana.
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