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scheda di Riberi, L., L'Indice 1995, n.11
Esiste una peculiarità dell'America musicale, che esprima la consapevolezza di un'esperienza culturale specificamente americana rispetto all'Europa? In questo saggio "scritto quasi d'un fiato" (e, a dire il vero, una revisione avrebbe giovato alla chiarezza espositiva), Cane ricerca i "caratteri originari" della possibile diversità americana; ma l'operazione non è semplice, i risultati non incoraggianti. Se è vero che L'America ideale è un luogo in cui il passato non vincola un presente eternamente trasformabile", è indubbio anche il forte dedito degli Usa, soprattutto nella musica colta, verso la cultura musicale europea; di qui il forte eurocentrismo che contraddistingue buona parte delle espressioni musicali "alte". La musica popolare presenta invece, come tutte le musiche popolari, un numero maggiore di elementi autoctoni (non tutti di natura strettamente musicale), ma è al contempo meno passibile di sviluppi e più soggetta a manipolazioni. La trasformazione del dialetto in lingua, di "modi vernacolari in territorio istituzionale autonomo" inizia con il jazz, vero e proprio 'unicum', e con Charles Ives, grande e isolato pioniere. Per Cane l'americanità di Ives e di Jelly Roll Morton consiste nel loro preferire alla musica scritta "il risuonare della musica come testo", permettendo la coesistenza del Nuovo Mondo mitico-popolare con modalità espressive non ancora ascoltate, l'"uscita della musica dal linguaggio" e dalle regole sociali che ne determinano l'espressione, e l'ingresso "nell'utopico campo dell'incondizionata individualità creativa".
È qui che prende corpo il mito delle origini, diversamente da chi, come Gershwin, Copland o Bernstein, impiega il "colorismo" regionale in un'ottica europeizzante. La ricerca di identità nella fisicità del suono corrisponde a una nuova centralità del soggetto, sia con il primato della melodia che con il gesto musicale che ribadisce un principio di libertà da parte del musicista. Ma si tratta, per l'appunto, di un'utopia, perseguibile da pochi pionieri. Il jazz mantiene, con il bop, la centralità del soggetto musicale, della musicalità dell'individuo, ma negli anni ciinquanta-sessanta imbocca nuove vie (l'Africa e l'Europa); l'avanguardia "colta" (Cage, Feldwan o Nancarrow) giunge a escludere l'espressione, il soggetto narrante, in favore dell'opera dotata di senso di per sé, quando non sceglie anch'essa un nuovo territorio (l'Oriente). Di fronte alla crisi della significazione, al pericolo dell'autoreferenzialità, riemerge infine il pericolo della semplificazione e del compromesso, che facilita la vittoria del "mercato, contro verità, sogno e utopia", simboleggiata dagli epigoni del minimalismo e dal revival neoboppistico. I pionieri scarseggiano, il West si allontana sempre di più. Ma è lecito continuare a sperare.
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