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Ashbery è un esploratore dell'universo che viaggia intorno alla sua stanza, il grande vecchio (oggi ha ottantun anni) della poesia americana e non solo. E questo libro accasa il mito Ashbery da noi in maniera che non potrebbe essere più degna: settantanove testi scelti dalle sue ventuno raccolte, prefati utilmente, tradotti ottimamente e pubblicati con eleganza (qualità precipua dell'uomo e poeta Ashbery: ma un'eleganza non esibita, americana). Non ci sono note, perché Ashbery, un po' come un suo maestro, Wallace Stevens, vuole che la poesia sfugga all'intelligenza quasi interamente. Argomento della poesia è il mondo attraversato dalla poesia, è il linguaggio e la sua misteriosa capacità di evocare senso, sicché Ashbery gioca a rimpiattino, offrendoci sempre un presentimento di messaggio destinato a eluderci, o che si allontana e avvicina come un fuoco fatuo.
Il senso della realtà è sospeso e Ashbery raffigura la nostra condizione e si immerge con andatura leggera negli abissi della mente già cari a Whitman e Wordsworth, dalla sua prospettiva americana, tardomoderna, pop. Così un "poeta per poeti", com'è stato definito, può anche destreggiarsi tra fumetti e intercalari della cultura popolare, portando un certo ordine nella camera degli specchi della percezione. Ama le frasi lunghe, le interrogazioni che avviluppano, i discorsi che tornano su di sé, ma non perde mai la bussola, riesce a orchestrare con rigore il suo "nonsense". Ashbery è anche stato critico d'arte, e le sue numerosissime poesie vanno prese come altrettanti quadri costruiti nel tempo. Come quadri e come musiche. Non sempre si capisce come i titoli c'entrino con i testi. Anzi, una poesia si chiama Ricerca del titolo e ne elenca un centinaio: "Voci di primavera. Bombon viennesi. / Giornali del mattino. Pompieri in visita. Polka funebre. / Symphonie en ut dièse majeur. Arti imbevuti di nebbia…".
Emozioni per raffinati? No, Ashbery è sufficientemente immerso nel quotidiano per parlare a chiunque apprezzi un quadro di Klee o Rauschenberg. Evoca una capacità di giocare, di stupirsi, di indagare; la serietà nella comicità. Quando legge con la sua voce pacata il pubblico non di rado ride, poi si fa serio. Sono freddure? Di certo c'è insieme l'esperienza e la consapevolezza che la si sta vivendo. È dentro alla realtà e fuori; come il fanciullo wordsworthiano ha "presentimenti di immortalità".
Questo libro offre una silloge di mezzo secolo di poesia postmoderna, una poesia dove la parola avanguardia non ha più senso: i testi illeggibili eppure fruibili di Ashbery appaiono su riviste di massa e in volumi presso i maggiori editori, non prendono le distanze dalla grigia quotidianità e dalla cultura comune, anzi, vi pescano a piene mani. Ma tutto è retto dalla moderazione. Potrebbe essere la risposta degli "uomini vuoti" liquidati da Eliot. In questo mondo schiacciato sul presente ci sono percorsi da seguire, c'è la ricerca inesausta della felicità.
Un'evoluzione forse si intravede, dalle provocazioni dei primi testi al distacco glaciale di certi ultimi, passando per il periodo meditabondo, assorto, intorno ai cinquant'anni; ma colpisce soprattutto la continuità. Finché ci sarà un lettore, una pagina, una mattina in cui scrivere, le parole-pennellate cominceranno a ordinarsi: "Quanto sarebbe comico il tuo nome / se riuscissi a risalirlo fino a dove / la prima persona pensò di pronunciarlo, / chiamandosi così, o può darsi / altre persone lo pensarono / e lo imposero a quella persona. Sarebbe / come risalire un fiume fino alla sorgente, / impossibile. I fiumi sono senza sorgente".
Massimo Bacigalupo
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