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Lo studio della Rivoluzione francese e ancor più del mito che ha generato nella costruzione della modernità è un'occasione per comprendere e rappresentare la specificità dello stato unitario nazionale. È un mito e un problema politico e storiografico di lungo corso, che ha del resto attraversato per intero il Novecento italiano, come mostra De Francesco, perché nel confronto con la Francia e con la sua tradizione rivoluzionaria l'intellettualità italiana ha indagato la difficile costruzione della modernità del paese. Va da sé che la riflessione sulla storia e sul mito dell'89 è stata sovente piegata alle necessità politico-ideologiche che dal Risorgimento al secondo dopoguerra, fino ad arrivare a oggi, hanno toccato, lacerandola, la storia d'Italia. Scivolando sul piano inclinato del contesto novecentesco, gli interpreti della Rivoluzione hanno giocato a "replicare la storia", provando ad adeguarla al presente che vivevano. Soprattutto la valutazione del Terrore e il radicalismo di Buonarroti sono stati i due momenti che hanno segnato il dibattito storiografico. Gaetano Salvemini nel 1905 arresta la storia della Rivoluzione all'eversione del sistema feudale e alla nascita della Repubblica nel 1792, nel tentativo di inserire nel dibattito politico una soluzione che demolisse l'antico regime senza con questo legittimare la scelta insurrezionale e terrorista che si profilava nell'opzione dei socialisti "intransigenti".
Fra le due guerre, l'eredità della Rivoluzione viene invece volta, come già aveva fatto la storiografia sabauda nel risorgimento, in chiave antifrancese; si pensa cioè che l'universalismo dei principi rivoluzionari fosse in realtà un pretesto per imporre il giogo francese, sulla falsariga di quanto era successo nel triennio repubblicano (1796-1799) e che su quel terreno l'Italia mai avrebbe portato a compimento il proprio processo unitario. Un giovane Benedetto Croce diede voce a questo sentimento, rivendicando una più congrua scelta nazionale, mentre altri, riscontrando l'incapacità del regime liberale di dar voce e rappresentanza adeguata alle classi popolari, si riallacciavano alla Rivoluzione francese per proporre l'esempio giacobino quale unica soluzione per spazzare via la classe dirigente moderata. L'esempio vicino della rivoluzione leninista acuì questa tensione ideale, rintracciando, sulle orme storiografiche di Albert Mathiez, il parallelismo fra 1793 e 1791. Il richiamo al giacobinismo fu un riferimento obbligato per coloro che diedero vita al Partito comunista, peraltro dopo un'evoluzione della riflessione gramsciana sulla natura di classe del movimento giacobino, affiancata dalla pubblicazione delle tesi di Mathiez sull'"Ordine Nuovo".
Un'altra opzione era legata al nome di Gioacchino Volpe e alla sua proposta nazional-liberale che, non negando la nascita dell'Italia moderna nell'89, poi divagava legando lo sviluppo dello spirito di indipendenza italiana alle rivolte antifrancesi. Non priva di importanza è la disamina di come il mito della rivoluzione condizionò la storiografia di impronta fascista e prima di tutto sullo stesso duce. I giovanili ardori rivoluzionari e babuvisti di Mussolini, nell'incostanza dell'uomo, vennero abbandonati dopo San Sepolcro per mettere al centro della propria azione politica Mazzini e Pisacane, più spendibili nel tentativo di intercettare la marea montante del nazionalismo reduce dalla guerra e deluso dagli accordi di pace. Optando infine per il più pagante cesarismo napoleonico, senza peraltro mai paragonare il suo fascismo alla restaurazione.
All'opzione sociale della rivoluzione si attennero Bottai e Ugo Spirito e con loro tutti coloro che, come il primo Cantimori, nell'ordine corporativo individuavano la ricomposizione unitaria e non classista della società. Lo stesso Cantimori, muovendo dall'utopismo, attraverso lo studio di Filippo Buonarroti aveva anche avviato una riflessione sul radicalismo politico di impronta nazionale per rimarcare la specificità della cultura politica italiana, fino ad approdare alla centralità del momento montagnardo. La stagione repubblicana, che si aprì con un netto rifiuto del nazionalismo, spinse a indagare con nuovi strumenti l'89, ma ancora una volta, rileva De Francesco, sulla spinta di una precisa opzione politica. Riemerse "l'ombra di Buonarroti", vale a dire una storiografia dominata dalla centralità del rivoluzionario pisano quale elemento di congiunzione fra robespierrismo e risorgimento unitario. Attraverso questo dato, sostiene De Francesco con verve polemica, gli storici di ascendenza gramsciana, con l'avallo delle categorie rimodulate da Togliatti a cui, peraltro, proprio Cantimori attribuiva una buona attitudine storica hanno finito, tra gli anni cinquanta e gli anni settanta, con l'imporre nel dibattito culturale il giacobinismo quale momento eroico della rivoluzione.
Alessandro Guerra
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